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Diritto di abitazione casa familiare: spetta al superstite separato
Con la Sentenza n 22566 del 2023 la Cassazione afferma che il diritto di abitazione della casa adibita a residenza familiare e l uso dei mobili spettano anche al coniuge separato senza addebito, con eccezioni.
La Cassazione ha specificato che è questione da sempre discussa se i diritti riconosciuti al coniuge dall'art 540 , comma 2, c.c., possano sorgere a favore del coniuge superstite che vivesse legalmente separato dal defunto.
Il dubbio ovviamente si giustifica in ragione del fatto che al coniuge separato senza addebito, la legge riconosce gli stessi diritti successori del coniuge non separato.
Taluni interpreti ritengono che la separazione legale implichi, necessariamente, il venir meno del presupposto per la nascita dei diritti di abitazione e di uso, divenendo impossibile, a seguito della separazione, individuare una "casa adibita a residenza familiare". In base a questa posizione, fatta propria della giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 13407/2014; n. 15277/2019), per "casa familiare" dovrebbe intendersi unicamente la casa di residenza comune al momento dell'apertura della successione.
Secondo una diversa opinione, oggetto dei diritti di abitazione e di uso dovrebbe essere l'ultima casa che fu di residenza comune, benché in un tempo precedente all'apertura della successione, ed i mobili che la corredavano.
E ancora secondo altri, si suggerisce di identificare come casa di residenza familiare quella che fu comune ed in cui il coniuge separato sopravvissuto si trovi ancora al momento di apertura della successione, o perché rimastovi di fatto, in conseguenza di un accordo con l'altro coniuge, o per disposizione del giudice.
In base a questa opinione il presupposto per la concreta attribuzione dei diritti, in sintesi, mancherebbe solo nelle ipotesi in cui, all'apertura della successione, il coniuge sopravvissuto non vivesse più nella casa familiare comune.
A tale soluzione è stato rimproverato di introdurre una disparità di trattamento nei confronti del coniuge senza prole o che vi abbia rinunziato all'assegnazione della casa familiare per ragioni legittime o al quale per qualsiasi motivo, il giudice non abbia attribuito il diritto di abitazione.
Con la sentenza in oggetto viene precisato che, pur dovendosi riconoscere l'opportunità di un chiarimento legislativo, sul piano applicativo si deve affermare la prevalenza degli argomenti che inducono ad accogliere la tesi secondo la quale l'adibizione della casa a residenza familiare non deve essere necessariamente in atto nel momento di apertura della successione, e pertanto non viene meno per il solo fatto della separazione legale.
La norma, infatti, non annovera fra i presupposti per l'attribuzione dei diritti la convivenza fra coniugi e, d'altra parte, la lettera dell'art 548 c.c. è chiara nel parificare i diritti successori del coniuge separato senza addebito a quelli del coniuge non separato.
In base a questa opinione i presupposti per la nascita del diritto mancherebbero solo qualora, dopo la separazione, la casa fosse stata abbandonata da entrambi i coniugi o avesse comunque perduto ogni collegamento, anche solo parziale o potenziale, con l'originaria destinazione familiare.
In tal caso, essendo cessata l'adibizione a residenza della famiglia, i diritti di abitazione e di uso non sorgono per difetto del presupposto oggettivo, mentre i presupposti continuerebbero a sussistere anche quando la successione si sia aperta in favore di quello che se ne fosse allontanato, lasciando a viverci l'altro ora defunto.
Merita di avere seguito l'osservazione, proposta in dottrina, che se è vero che l'interesse di un coniuge e non mutare ambiente di vita aveva dovuto cedere, nel conflitto, a quello dell'altro, proprietario esclusivo o comproprietario, è vero nello stesso tempo che altrettanta forza non può essere riconosciuta –sì da impedire al superstite il ritorno in quell'ambiente, che può avere conservato con lui un valore non soltanto economico- agli interessi esclusivamente patrimoniali degli altri chiamati in concorso.
Si deve inoltre condividere l'opinione, sempre proposta con riferimento all'ipotesi dell'abbandono della casa coniugale, che non sono consentite in materia distinzioni, a seconda che esso sia o no giustificato.
Non si può rimettere al giudice della successione un accertamento di colpa che le legge prende in considerazione -all'effetto di escludere la vocazione ereditaria e, con essa, il diritto di abitazione sulla casa familiare- solo quando sia intervenuto in contraddittorio con l'altro coniuge, in un giudizio definito prima dell'apertura della successione.
La Cassazione specifica che, in accoglimento del primo motivo, la sentenza deve essere cassata e il giudice di rinvio dovrà attenersi al seguente principio di diritto: «I diritti di abitazione e uso, accordati al coniuge superstite dall'art 540, comma 2, c.c. spettano anche al coniuge separato senza addebito, eccettuato il caso in cui, dopo la separazione, la casa sia stata lasciata da entrambi i coniugi o abbia comunque perduto ogni collegamento, anche solo parziale o potenziale, con l'originaria destinazione familiare».
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Assegno una tantum al coniuge tassato in Spagna: indeducibile in Italia
Con le Sentenze n. 25383 del 29 agosto 2023, la Cassazione è intervenuta in merito all’interpretazione dell’art. 10 comma 1 lett. c) del TUIR, norma in base alla quale sono deducibili “gli assegni periodici corrisposti al coniuge, ad esclusione di quelli destinati al mantenimento dei figli, in conseguenza di separazione legale ed effettiva, di scioglimento o annullamento del matrimonio o di cessazione dei suoi effetti civili, nella misura in cui risultano da provvedimenti dell’autorità giudiziaria”.
La Cassazione ha ritenuto indeducibile la somma versata da un coniuge alla proprio moglie, somma (che secondo l'accordo doveva essere pagata a rate) a seguito di un accordo di separazione firmato in Spagna, dove entrambi risiedevano all'atto della separazione, e poi dichiarato in Italia dal marito.Assegno divorzile tassato in Spagna: indeducibile in Italia
Nel dettaglio, con sentenza del 19 maggio 2006 il Tribunale di Valencia (Spagna) dichiarò la separazione personale di due coniugi, allora entrambi residenti in Spagna, sulla base di un accordo approvato dal giudice spagnolo.
La sentenza riconobbe alla moglie la somma una tantum di 1.000.000 di euro a titolo di "pension compensatoria" da versare ratealmente nel corso di sei anni sino all'estinzione del debito. Dopo la separazione, il ricorrente trasferì il proprio domicilio in Italia.
Nel 2006 il ricorrente versò alla moglie una rata della "pension compensatoria", pari ad euro 50.000, che fu tassato in Spagna in capo alla percipiente, in quanto assimilato ad un reddito da lavoro dipendente.
In sede di dichiarazione dei redditi del 2007, presentata in relazione al periodo d'imposta 2006, il ricorrente portò in deduzione dal reddito imponibile il suindicato importo.
In esito ad un controllo formale ex art 36 ter del DPR n. 600 del 1973, l'Ufficio rilevò l'indebita deduzione ed iscrisse a ruolo le maggiori imposte dovute a titolo di Irpef, addizionali comunali e regionali, interessi e sanzioni, per un importo pari ad euro 31.137,87.
Successivamente, l'agente della riscossione notificò al ricorrente la cartella di pagamento con la quale gli venne richiesto il detto importo oltre ai compensi di riscossione.
Il ricorrente propose ricorso alla C.T.P. di Milano, invocando il principio di simmetria e la doppia imposizione economica.
Il giudice di primo grado accolse le doglianze del contribuente.
La C.T.R. della Lombardia riformò integralmente la sentenza di primo grado, accogliendo l'appello dell'Ufficio.
Avverso la sentenza d'appello il contribuente ha proposto ricorso per Cassazione, sulla base di cinque motivi tutti rigettati dalla corte.Assegno divorzile da accordo spagnolo: indeducibile in Italia
La Cassazione valorizza il tenore letterale del dettato normativo (art. 10 comma 1. lett. c) del TUIR), il quale, ponendo esplicito riferimento agli assegni periodici, esclude la deducibilità degli assegni una tantum.
Inoltre, essendo i soggetti della transazione residenti in due Stati diversi, non potrebbe essere invocato il principio di simmetria volto a garantire la deducibilità delle somme che sono considerate imponibili in capo al percipiente, in quanto lo stesso non varrebbe nei rapporti tra due diversi ordinamenti.
Ne consegue che, in mancanza di una specifica disposizione convenzionale in materia, si applica l’art. 10 comma 1, lett. c) del TUIR che esclude la deducibilità dell’assegno una tantum.Viene spiegato che che proprio il riferimento agli “assegni periodici” risultanti da provvedimenti dell’autorità giudiziaria, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, fa propendere per l’esclusione della deducibilità degli assegni una tantum.
La sentenze in commento è in liena con la giurisprudenza prevalente, pur trattando altri aspetti internazionali della separazione dei due ex coniugi. -
Superbonus: spetta anche se abitazione principale “ci diventa” a fine lavori
Con Risposta a interpello n 377 del 10 luglio le Entrate replicano ad un quesito sul Superbonus e in particolare chiarendo il momento rilevante per la verifica del rispetto del requisito di destinazione ad ''abitazione principale'' di un'unità immobiliare unifamiliare oggetto di un intervento di demolizione e ricostruzione ( articolo 119 del decreto legge19 maggio 2020, n. 34).
L'Istante riferisce di aver acquistato, fruendo dell'agevolazione c.d. ''prima casa'', un immobile accatastato in categoria A/3 ma descritto come ''parzialmente crollato e in stato fatiscente, con tetti e solai completamenti crollati'', con ''solo parte delle pareti esterne'' e, pertanto, ''inagibile''.
Per rendere abitabile detto immobile, la proprietaria è intenzionata ad effettuare un intervento di demolizione e ricostruzione e di volersi avvalere, a tal fine, delle agevolazioni cd. Superbonus di cui all'articolo 119 del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34 (decreto Rilancio).
A tal fine, l'Istante dichiara di soddisfare parzialmente le condizioni previste dalla normativa vigente per accedere al Superbonus in caso di interventi su immobili unifamiliari, in quanto risulta:
- essere titolare di diritto di proprietà sull'unità immobiliare;
- avere un reddito di riferimento, determinato ai sensi del comma 8bis.1 dell'articolo 119 del citato decreto Rilancio, non superiore a 15.000 euro,
- però, evidenzia di non aver ancora stabilito la propria residenza nello stesso e che ciò potrà avvenire solo al termine dei lavori di demolizione e ricostruzione.
Chiede, pertanto, se possa beneficiare del Superbonus qualora adibisca l'immobile a propria abitazione principale, stabilendovi anche la propria residenza, solo alla fine degli interventi previsti.
Le entrate replicano che nello specifico, l'articolo 9, comma 1, lettera a), numero 3), del citato decreto Aiuti quater ha modificato il comma 8 bis dell'articolo 119 del decreto Rilancio, introducendo il terzo periodo, ai sensi del quale per gli interventi avviati a partire dal 1° gennaio 2023 su unità immobiliari dalle persone fisiche al di fuori dell'esercizio di un'attività d'impresa, arti e professioni, il Superbonus spetta nella misura del 90 per cento delle spese sostenute entro il 31 dicembre 2023, a condizione che il contribuente sia titolare di diritto di proprietà o di diritto reale di godimento sull'unità immobiliare, che la stessa unità immobiliare sia adibita ad abitazione principale e che il contribuente abbia un ''reddito di riferimento'', determinato ai sensi del comma 8 bis.1 del medesimo articolo 119, non superiore a 15.000 euro.
Con la circolare n. 13/E del 2023 è stato, al riguardo, chiarito che la verifica del rispetto dei predetti requisiti costituisce una novità dell'attuale disciplina del Superbonus che riguarda soltanto gli interventi iniziati a partire dal 1° gennaio 2023.
In merito al requisito della destinazione dell'unità immobiliare ad abitazione principale, la circolare chiarisce che possa essere applicata la definizione del comma 3bis dell'articolo 10 del testo unico delle imposte sui redditi (TUIR) di cui al decreto del presidente della repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, secondo cui «per abitazione principale si intende quella nella quale la persona fisica, che la possiede a titolo di proprietà o altro diritto reale, o i suoi familiari dimorano abitualmente. ».
Il medesimo documento di prassi ha, inoltre, chiarito che, qualora l'unità immobiliare non sia adibita ad abitazione principale all'inizio dei lavori, il Superbonus spetta per le spese sostenute per i predetti interventi a condizione che il medesimo immobile sia adibito ad abitazione principale al termine degli stessi.
La medesima circolare precisa, inoltre, che per «interventi avviati dal 1° gennaio 2023» (di seguito anche interventi iniziati) devono intendersi, in linea generale, gli interventi per i quali la comunicazione di inizio lavori asseverata (CILA) sia stata presentata a decorrere dalla predetta data e la cui data di inizio lavori, indicata nella medesima CILA, sia successiva al 31 dicembre 2022.
Possono rientrare, inoltre, nella nuova disciplina anche gli interventi per i quali la presentazione della CILA sia antecedente al 1° gennaio 2023, purché il contribuente dimostri che i lavori abbiano avuto inizio a decorrere dall'anno 2023, circostanza che può essere documentata dalla data di inizio lavori indicata nella CILA o anche mediante un'attestazione resa dal direttore dei lavori secondo le modalità dell'autocertificazione rilasciata ai sensi dell'articolo 47 del DPR n. 445 del 2000.
Ciò premesso, l'Istante, nel rispetto di ogni altra condizione e adempimento previsto dalla normativa di riferimento potrà fruire del Superbonus nella misura del 90 per cento delle spese sostenute dal 1° gennaio al 31 dicembre 2023, a condizione che l'immobile di proprietà oggetto degli interventi agevolabili sia adibito ad abitazione principale, nel senso sopra chiarito, al termine degli interventi medesimi.
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Unione di fatto: il regime fiscale della cessione quota immobile
Con Risposta a interpello n 244 del 4 maggio 2022 le Entrate trattano della esenzione ex art. 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74 in riferimento ad un caso di convivenza di fatto
In particolare, tra gli accordi raggiunti dagli ex conviventi vi è quello di addivenire alla cessione della quota di metà dell'abitazione, prima condivisa, e all'accollo della quota di metà del mutuo da parte del soggetto che continuerà ad abitare l'immobile insieme con i figli.
Il Notaio istante ritiene che al trasferimento della quota di metà dell'immobile possa essere applicata l'esenzione dall'imposta di bollo, registro e ogni altra tassa prevista dall'art. 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74 ma le Entrate non concordano, vediamo il perché.
Innanzitutto è bene sottolineare che il Tribunale ha approvato le condizioni pattuite per la cessazione della convivenza, il mantenimento della prole e la sorte dell'abitazione che era adibita a residenza della coppia e delle due minori.
Le Entrate dopo un excursus normativo ritengono che l'esenzione di cui si discute non sia applicabile alla convivenza di fatto.
L'articolo 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74 dispone che "tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nonché ai procedimenti anche esecutivi e cautelari diretti ad ottenere la corresponsione o la revisione degli assegni di cui agli articoli 5 e 6 della legge l° dicembre 1970, n. 898, sono esenti dall'imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa".
Con circolare n. 27/E del 21 giugno 2012 è stato chiarito che, dal punto di vista oggettivo, l'esenzione di cui al citato articolo 19 si riferisce a tutti gli atti, documenti e provvedimenti che i coniugi pongono in essere nell'intento di regolare i rapporti giuridici ed economici "relativi" al procedimento di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili dello stesso.
Con riferimento al caso rappresentato, occorre richiamare la legge 20 maggio 2016, n. 76 (cd. "Legge Cirinnà"), recante la "Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze".
La "convivenza di fatto" comporta il riconoscimento di una serie di situazioni giuridiche previste dall'art 1 commi 38 e ss. (es. diritto di visita, assistenza ospedaliera, etc.).
Il medesimo articolo 1 prevede, inoltre, al comma 50 che "I conviventi di fatto possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza".
Tali contratti, ai sensi del comma 51 (così come le relative modifiche e risoluzioni), "sono redatti in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che ne attestano la conformità alle norme imperative e all'ordine pubblico" e, ai fini dell'opponibilità a terzi, il professionista che ha ricevuto l'atto in forma pubblica o che ne ha autenticato la sottoscrizione "deve provvedere entro i successivi dieci giorni a trasmetterne copia al comune di residenza dei conviventi per l'iscrizione all'anagrafe …".
Però, la richiamata legge n. 76 del 2016 non prevede e non regolamenta alcuna modalità di scioglimento del "rapporto di convivenza"; in altri termini, non è previsto legislativamente alcun procedimento o tutela giurisdizionale o paragiurisdizionale per porre rimedio ad un'eventuale crisi tra i conviventi stessi.
Inoltre, si fa presente che gli atti e i documenti con cui i " conviventi di fatto" regolamentano i loro rapporti patrimoniali per la risoluzione di una crisi del loro legame non possono essere equiparati agli accordi conclusi a seguito di convenzione di negoziazione assistita di cui all'articolo 6 del decreto legge 12 settembre 2014, n. 132 alla quale è invece applicabile l'esenzione dell'art 19 di cui si tratta (Risoluzione 65/2015)
Sulla base di quanto detto, con riferimento alla fattispecie rappresentata non si ritiene sussistente il presupposto per l'applicazione dell'articolo 19 della legge n. 74 del 1987, che fa riferimento a "tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili del matrimonio", in ossequio alla ratio sopra individuata di agevolare l'accesso alla tutela giurisdizionale ai fini di consentire la risoluzione della crisi coniugale.
Ne consegue che al trasferimento della quota di metà dell'immobile adibito a residenza dei "conviventi di fatto" a favore di uno dei due non possa essere applicata l'esenzione prevista dall'art. 19 della legge n. 74 del 1987.
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Separazione giudiziale e gratuito patrocinio: quando si può avere
Le Entrate con Risposta a interpello n 31 del 19 gennaio 2022 chiariscono un caso di separazione giudiziale e gratuito patrocinio.
La contribuente che intende separarsi chiedendo il gratuito patrocinio è disoccupata e non è proprietaria nè di immobili nè mobili registrati; il coniuge è soggetto richiedente il reddito di cittadinanza ed è anche l'intestatario della Carta Rdc mediante la quale è erogato il beneficio economico ai sensi dell'articolo 5, comma 6, del citato decreto legge n. 4 del 2019.
Il reddito di cittadinanza è stato riconosciuto in favore del nucleo familiare di cui fa parte anche l'Istante che dichiara di "beneficiare" del predetto reddito attraverso la carta intestata al coniuge.
Pertanto, ai fini della ammissione al patrocinio gratuito, spiega l'agenzia, nella determinazione del reddito personale andrebbe considerato anche il predetto reddito per la quota del 50 per cento, nel presupposto che nel nucleo familiare, oltre ai due coniugi, non ci siano altri componenti maggiorenni.
Gratuito patrocinio: quando si può richiedere
L'agenzia ricorda che il patrocinio per i non abbienti cd. "gratuito patrocinio" è previsto dall'articolo 74 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (di seguito "Testo unico spese di giustizia").
Può essere ammesso al gratuito patrocinio chi è titolare di un reddito imponibile ai fini dell'imposta personale sul reddito, risultante dall'ultima dichiarazione, non superiore a euro 11.746,68.
Si stabilisce inoltre che se l'interessato convive con il coniuge o con altri familiari, il reddito è costituito dalla somma dei redditi conseguiti nel medesimo periodo da ogni componente della famiglia, compreso il soggetto istante. In tal caso, i limiti di reddito sono elevati di euro 1.032,91 per ognuno dei familiari conviventi.
Inoltre si prevede che si tiene conto del solo reddito personale quando sono oggetto della causa diritti della personalità, ovvero nei processi in cui gli interessi del richiedente sono in conflitto con quelli degli altri componenti il nucleo familiare con lui conviventi.
Secondo la Corte di Cassazione, tale ipotesi si verifica anche nei procedimenti di separazione pertanto, ai fini dell'applicabilità della disciplina del gratuito patrocinio, il reddito del ricorrente non deve essere cumulato con quello del coniuge convivente, poiché la sussistenza di un conflitto di interessi tra le posizioni dei coniugi rende operante la deroga di cui al citato articolo 76, comma 4, del Testo unico spese di giustizia (cfr. sentenza della Corte di Cassazione n. 20545 del 29 settembre 2020).
Inoltre, ai fini della determinazione dei limiti di reddito per poter accedere al gratuito patrocinio, si tiene conto anche dei redditi che per legge sono esenti dall'imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) o che sono soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d'imposta, ovvero ad imposta sostitutiva.
Reddito di cittadinanza e computo nel reddito valido ai fini del gratuito patrocinio
Ai fini della determinazione del reddito rilevante per l'ammissione al gratuito patrocinio, pertanto, è incluso anche il c.d. reddito di cittadinanza, introdotto con il decreto legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito con modificazioni con la legge 28 marzo 2019, n. 26. Tale beneficio consiste in un sostegno economico ad integrazione dei redditi familiari, associato ad un percorso di reinserimento lavorativo e di inclusione sociale, di cui i beneficiari sono protagonisti sottoscrivendo un Patto per il lavoro ed un Patto per l'inclusione sociale.
Ai sensi dell'articolo 2 del citato decreto legge n. 4 del 2019, il reddito di cittadinanza è riconosciuto "ai nuclei familiari", al ricorrere di requisiti soggettivi e reddituali, espressamente previsti dal medesimo decreto legge, che definiscono la condizione economica rilevante per l'erogazione del sussidio.
L'articolo 3, comma 7, del decreto legge n. 4 del 2019 prevede, inoltre, la possibilità di erogare il reddito di cittadinanza suddiviso per ogni singolo componente maggiorenne del nucleo familiare e che tale disposizione è stata recentemente attuata con il decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali del 30 aprile 2021.
Ai sensi dell'articolo 4 del citato decreto 30 aprile 2021, se è richiesta l'erogazione suddivisa del reddito di cittadinanza, vengono emesse più carte, corrispondenti al numero di persone cui deve essere liquidata la prestazione attraverso dette carte. Tali disposizioni consentono, quindi, di individuare la quota del reddito di cittadinanza di pertinenza di ciascun componente maggiorenne del nucleo familiare.
Con specifico riferimento al quesito posto dall'Istante da quanto emerge dall'istanza, il predetto coniuge è soggetto richiedente il reddito di cittadinanza che è anche l'intestatario della Carta Rdc mediante la quale è erogato il beneficio economico ai sensi dell'articolo 5, comma 6, del citato decreto legge n. 4 del 2019.
Nel caso rappresentato, il reddito di cittadinanza è stato riconosciuto in favore del nucleo familiare di cui fa parte anche l'Istante che dichiara di "beneficiare" del predetto reddito attraverso la carta intestata al coniuge.
Pertanto, ai fini della ammissione al patrocinio gratuito, nella determinazione del reddito personale andrebbe considerato anche il predetto reddito per la quota del 50 per cento, nel presupposto che nel nucleo familiare, oltre ai due coniugi, non ci siano altri componenti maggiorenni.