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    Cessione quote societarie ai figli: quando è reato perchè evitare recupero debiti fiscali

    Con Sentenza n. 29943/2025 la Cassazione ha stabilito che configurano il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (ex articolo 11 Dlgs n. 74/2000), anche i comportamenti che appaiono formalmente leciti ma che complessivamente rappresentano uno stratagemma finalizzato a sottrarre garanzie patrimoniali all'esecuzione del debito da parte dell'Amministrazione finanziaria.

    Vediamo i dettagli della causa.

    Cessione quote societarie ai figli: quando è reato perchè evita il recupero debiti fiscali

    Un soggetto veniva condannato dal Tribunale penale perché ritenuto responsabile del reato di cui all'articolo 11 Dlgs n. 74/2000, per avere compiuto atti fraudolenti idonei a rendere inefficace la procedura di riscossione delle imposte mediante la cessione al figlio convivente delle proprie quote di una società semplice.

    La Corte d’Appello confermava la sentenza di primo grado, di qui il ricorso in Cassazione.

    L'imputato eccepiva l'errata applicazione dell' articolo 11 citatoda parte del giudice di seconde cure, che aveva ritenuto che la cessione al figlio di una percentuale delle proprie quote di partecipazione nella società avesse natura fraudolenta per essere stata posta in essere per occultare i propri beni ipregiudicando l'attività di recupero dell'Amministrazione finanziaria.

    La Cassazione ha ritenuto il ricorso inammissibile premettendo che l’articolo 11 Dlgs n. 74/2000 sanziona alternativamente, la condotta di chi, allo scopo di sottrarsi al pagamento di imposte, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni, idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva. 

    Come evidenziato da precedente pronuncia (Cassazione n 36290/2011) Il legislatore ha inteso evitare che il contribuente si sottragga al suo dovere di concorrere alle spese pubbliche creando una situazione di apparenza tale da consentirgli di rimanere nel possesso dei propri beni fraudolentemente sottratti alle ragioni dell'erario.

    Secondo la giurisprudenza di legittimità la natura di reato di pericolo concreto della fattispecie in esame èstata più volte evidenzaita.

    A tale proposito, la suprema Corte ha chiarito che il reato in questione è integrato dall'uso di atti simulati o fraudolenti per occultare i propri o altrui beni, idonei a pregiudicare l'attività di recupero della amministrazione finanziaria.

    Nel novero di “altri atti fraudolenti” sono compresi sia atti materiali di occultamento e sottrazione dei propri beni sia anche atti giuridici diretti, secondo una valutazione concreta, a sottrarre beni al pagamento delle imposte.

    La Cassazione ha specificato che la nozione di atto fraudolento è da evidenziarsi come:   

    • “ogni comportamento che, formalmente lecito (analogamente, del resto, alla vendita di un bene), sia tuttavia caratterizzato da una componente di artifizio o di inganno” (cfr Cassazione n. 25677/2012), ovvero
    • ogni atto che sia idoneo a rappresentare una realtà non corrispondente al vero (per la verità con una sovrapposizione rispetto alla simulazione)” ovvero
    • “qualunque stratagemma artificioso tendente a sottrarre le garanzie patrimoniali alla riscossione” (cfr Cassazione n. 3011/2016).

    Con riferimento all'alienazione di beni, l’orientamento consolidato prevede che in tema di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, gli atti dispositivi compiuti dall'obbligato, oggettivamente idonei a eludere l'esecuzione esattoriale, hanno natura fraudolenta, ai sensi dell'articolo 11 Dlgs n. 74/2000, allorquando, pur determinando un trasferimento effettivo del bene, siano connotati da elementi di inganno o di artificio, cioè da uno stratagemma tendente a sottrarre le garanzie patrimoniali all'esecuzione.

    Infine la Cassazione ha chiarito che la nozione di "atti fraudolenti" comprende tutti quei comportamenti che, quand'anche formalmente leciti, siano tuttavia connotati da elementi di inganno o di artificio, dovendosi cioè ravvisare l’esistenza di uno stratagemma tendente a sottrarre le garanzie patrimoniali all'esecuzione, rilevando, tra i possibili indicatori della fraudolenza, la prova dell'eventuale compiacenza degli acquirenti, la congruità del prezzo pagato (cfr Cassazione n. 25677/2012).

    Pertanto è corretta la pronuncia della Corte d’Appello che aveva rilevato l’esistenza di un comportamento fraudolento finalizzato a rendere difficoltosa la procedura di riscossione coattiva del debito.

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    Udienza tributaria da remoto: nulla se effettuata al telefono

    In un mondo sempre più dematerializzato e in un processo sempre più telematico, si pone il problema delle legittime modalità di svolgimento delle udienze da remoto, quelle udienze che si svolgono senza la presenza fisica dei partecipanti.

    Della questione si è occupata la Corte di Cassazione con l’ordinanza numero 20836, depositata il 23 luglio 2025, con la quale il ricorrente contestava le modalità di svolgimento dell’udienza di appello nell’ambito del processo tributario: infatti, nel caso in esame, un membro del collegio giudicante, a sua volta composto da tre membri, era collegato solo telefonicamente.

    Secondo la Corte di cassazione, in una udienza che si svolga da remoto, è necessario che le modalità di collegamento dei partecipanti abbiano caratteristiche tali da assicurare le fondamentali garanzie del processo: a questo fine è necessario che il collegamento dei partecipanti avvenga in videoconferenza, con collegamento sia video che audio, non essendo sufficiente il solo collegamento telefonico.

    La mancanza del collegamento audiovisivo da parte di tutti partecipanti costituisce una irregolare modalità di partecipazione, tale da compromettere il processo per irregolare costituzione del collegio e, di conseguenza, rendere nulla la sentenza in modo insanabile.

    Le motivazioni della decisione

    Secondo i giudici della Corte di Cassazione, infatti, il collegamento con sistema audio-visivo costituisce l’unica modalità di partecipazione capace di garantire:

    • il contraddittorio tra le parti;
    • la pubblicità dell’udienza;
    • la parità di condizioni tra tutti i partecipanti.

    Secondo quanto disposto con l’ordinanza numero 80836/2025, il collegamento con modalità telefonica non può soddisfare tutti questi requisiti, in quanto la partecipazione di uno dei giudici con collegamento solo audio non garantisce che questi abbia visto e sentito correttamente la discussione e non assicura la partecipazione paritaria rispetto agli altri membri del collegio.

    Secondo quanto disposto dall’articolo 2, comma 5, del Decreto Legislativo numero 545/1992, nell’ambito del processo tributario i collegi giudicanti sono composti da tre membri effettivi e invariabili, se uno di questi partecipa con modalità che non si possono considerare conformi, secondo la Carte di Cassazione è inevitabile che l’intero collegio debba essere considerato irregolarmente formato.

    Di conseguenza la sentenza è inevitabilmente nulla, affetta da nullità insanabile, ai sensi dell’articolo 158 del Codice di procedura civile, norme che si applicano anche al processo tributario ai sensi dell’articolo 1, comma 2, del Decreto Legislativo 546/1992.

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    CPB: in arrivo il nuovo Ravvedimento speciale

    Un emendamento del presidente della Commissione Finanze, Marco Osnato, al recente Decreto Fiscale cerca di aprire la strada a una riedizione del Ravvedimento speciale, che interesserebbe i contribuenti che aderiscono al Concordato Preventivo Biennale.

    Lo scorso anno, per i contribuenti che hanno aderito al CPB, c’è stata la possibilità di sanare eventuali violazioni tributarie avvenute negli anni  precedenti in modo semplificato, pagando delle sanzioni forfettizzate, evitando così di incorrere in un accertamento tributario.

    La nuova proposta di Ravvedimento speciale da un punto di vista strutturale dovrebbe ricalcare quello dello scorso anno, configurando il medesimo sistema di scudo fiscale sulle annualità precedenti, con il medesimo obiettivo di stimolare l’accettazione della proposta di CPB; con maggiore precisione, sembrerebbe che per quest’anno sarà possibile scudare:

    • le annualità dal 2019 al 2023, per chi aderisce quest’anno al CPB;
    • anche il 2023, per chi ha aderito lo scorso anno.

    Potranno accedere al Ravvedimento speciale solo coloro che hanno aderito al CPB, versando una imposta sostitutiva sui redditi già dichiarati, con un’aliquota che cresce al decrescere dell’affidabilità fiscale del contribuente:

    • aliquota del 10%, per chi ottiene un punteggio ISA pari o superiore al 9;
    • aliquota del tributarie 12%, per chi ottiene un punteggio ISA compreso tra 6 e 8;
    • aliquota del  15%, per chi ottiene un punteggio ISA inferiore a 6.

    La base imponibile su cui applicare l’imposta sostitutiva è costituita dai redditi già dichiarati in ogni annualità, incrementati di una quota che varia in base al punteggio ISA del contribuente; ottenuta applicando ai redditi dichiarati una aliquota:

    • del 5%, per chi ottiene un punteggio ISA pari a 10;
    • del 10%, per chi ottiene un punteggio ISA compreso tra 8 e 10;
    • del 20%, per chi ottiene un punteggio ISA compreso tra 6 e 8;
    • del 30%, per chi ottiene un punteggio ISA compreso tra 4 e 6;
    • del 40%, per chi ottiene un punteggio ISA compreso tra 3 e 4;
    • del 50%, per chi ottiene un punteggio ISA inferiore a 3.

    Per accedere al Ravvedimento speciale il contribuente dovrebbe corrispondere una imposta minima di mille euro per ogni annualità, che sostituisce l’IRPEF o l’IRES, da versare (l’unica rata o la prima rata) entro il 31 marzo 2026.

    Le reazioni

    Come detto, l’obiettivo dell’emendamento, è quello di aumentare l’appeal di uno strumento, il Concordato Preventivo Biennale, fortemente voluto da questo governo, ma che non riesce a sfondare tra i contribuenti, con una adesione ancora molto limitata.

    Non si sono registrate particolari dichiarazioni da parte del governo, che tira dritto verso l’iter di approvazione; ma al contrario si è registrata la reazione dell’opposizione: Maria Cecilia Guerra, responsabile lavoro del PD, parla infatti di “condono” e dell’ennesimo tentativo di “piegare la leva fiscale a una concezione profondamente clientelare: provvedimenti di favore per gruppi ben identificati di contribuenti, con l’obiettivo evidente di ottenerne il sostegno elettorale”.

    Da un punto di vista di politico, uno strumento pensato come il Ravvedimento speciale può essere facile da approvare o da criticare a seconda delle diverse visioni delle cose; quel che però esula da queste differenze di vedute è il fatto che, così come il CPB, anche il Ravvedimento speciale non ha avuto larga diffusione presso il grande pubblico delle partite IVA.

    Il fatto ineludibile è che, in un paese con una pressione fiscale come quella che c’è in Italia, è difficile che un contribuente che non ha nulla da nascondere, decida di versare ancora ulteriori imposte solo per accertarsi di non subire controlli da parte del fisco.

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    Ristretta base partecipativa: vale anche se i soci sono altre società

    Con società a ristretta base partecipativa si intende una società di capitali partecipata da un numero esiguo di soci, che, da un punto di vista operativo, si distingue da una società a capitale diffuso per il fatto che i soci possono avere un controllo diretto e permeante sulla società.

    Dal punto di vista fiscale il legislatore non ha previsto una situazione di sfavore per le società che si trovano in questa situazione, ma giurisprudenza e prassi hanno inventato una presunzione semplice, su cui oggi si basano un gran numero di accertamenti nei confronti dei soci di società con numero esiguo di soci.

    L’ipotesi è che, in una società a ristretta base partecipativa, nel momento in cui vengono contestati ricavi non contabilizzati o costi inesistenti, il maggior reddito conseguito dalla società (quello scaturente dalla contestazione) sia stato già distribuito ai soci, i quali a loro volta divengono oggetto di accertamento fiscale.

    La logica vorrebbe che una tale contestazione restasse in capo alla società, il soggetto giuridico che ha conseguito l’eventuale maggior reddito, come previsto dal legislatore; secondo giurisprudenza e prassi, invece, è legittimo ritenere che tale maggior reddito sia stato distribuito, a meno che i soci non siano in grado di dimostrare il contrario.

    La motivazione che sta alla base di questa contestazione è la presunzione che la ristrettezza dell'assetto societario implica un vincolo di solidarietà, e di reciproco controllo, dei soci nella gestione sociale, che non c’è invece in una società a capitale diffuso.

    In principio questa presunzione semplice veniva applicata alle sole SRL, e si ipotizzava che questo fatto derivasse dalla natura di questo tipo di società, divenute, in conseguenza della riforma del diritto societario, una sorta di via di ibrido tra società di persone e società di capitali.

    Con il passare del tempo però la presunzione è stata estesa anche alle SPA, e infine, oggi, persino al caso in cui i soci di una società oggetto di contestazione siano altre società, non importa se di capitali o di persone.

    Questo tipo di contestazione è divenuta così frequente e dal perimetro di applicazione sempre più ampio, che, nell’ambito della riforma fiscale, l’attuale governo aveva previsto di disciplinare la fattispecie in modo tale da definire almeno il perimetro di applicazione e le fattispecie contestabili.

    A qualcuno potrebbe sembrare strano il fatto che il legislatore avrebbe dovuto inserire nell’ordinamento una norma per mettere freno a delle contestazioni che non sono basate su altre norme, ma bisogna ammettere che l’intervento sarebbe stato auspicabile, quantomeno per ricostituire un livello minimo di certezza del diritto su questa questione. 

    Questione, va detto, che frena la diffusione delle società di capitali, in un paese in cui notoriamente le imprese sono troppo piccole e tendenzialmente individuali.

    L’ordinanza 16035 del 16 giugno 2025

    Con l’ordinanza numero 16035, pubblicata il 16 giugno 2025, la Corte di Cassazione estende il perimetro di applicazione della presunzione di distribuzione di utili extracontabili ai soci di una società a ristretta base partecipativa anche al caso in cui i partecipanti alla società siano altre società, non importa se di capitali o di persone.

    Secondo la Corte la presunzione “non è neutralizzata dallo schermo della personalità giuridica, ma estende la sua efficacia a tutti i gradi di organizzazione societaria per i quali si riscontri la ristrettezza della compagine sociale”; ciò che deve essere valutato è se ogni livello societario, caratterizzato dalla ristrettezza della compagine sociale, costituisca o meno “un mero schermo rispetto alle persone fisiche, valido civilisticamente ma non opponibile al fisco”.

    In ragione di ciò, la Corte di Cassazione, con l’ordinanza 16035/2025 emana il seguente principio di diritto: “in materia di imposte sui redditi, nell'ipotesi di società di capitali a ristretta base sociale, la presunzione di attribuzione ai soci di maggiori utili, in corrispondenza di costi risultanti dalle scritture contabili ma disconosciuti, opera anche nel caso in cui la compagine sociale si componga esclusivamente di società, sia di persone sia di capitali, senza che ciò si ponga in contrasto con il divieto di presunzione di secondo grado, allorquando il fatto noto è dato dalla ristrettezza dell'assetto societario che implica un reciproco controllo dei soci nella gestione sociale con conseguente vincolo di solidarietà”.

    Il principio emanato, a prescindere dal fatto che l’idea possa essere condivisa o meno, può presentare delle difficoltà di ordine concreto, in quanto non è chiaro in che maniera, materialmente, una società, socia di un’altra società, possa dimostrare il fatto di non aver ricevuto utili extracontabili, dato che questi già non sono iscritti nelle sue scritture contabili.

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    Contenzioso tributario: l’attestazione di conformità non necessariamente su orginale

    Il Vice Ministro Leo durante l'apertura dell'anno giudiziario, in data 12 marzo, ha anticipato un chiarimento molto atteso per il Contenzioso Tributario. 

    Il tema è stato oggetto di una norma contenuta nel Correttivo approvato il 13 marzo dal CdM.

    In particolare, relativamente all’attestazione di conformità dei documenti inseriti nel fascicolo processualeva fatta sul documento analogico che viene presentato al professionista e quindi non necessariamente l’originale”. 

    Il chiarimento riguarda la corretta interpretazione del nuovo art. 25-bis comma 5-bis del DLgs. 546/92, introdotto dal DLgs. 220/2023 che prevede che "Il giudice non tiene conto degli atti e dei documenti su supporto cartaceo dei quali non è depositata nel fascicolo telematico la copia informatica, anche per immagine, munita di attestazione di conformità all’originale”. 

    Attestazione conformità nel contenzioso tributario: novità in arrivo

    L'artiolo 11 del Decreto Legislativo in bozza riguarda appunto Disposizioni integrative e correttive in materia di contenzioso tributario.

    Con tale intervento si persegue l’obiettivo di razionalizzare e semplificare alcune disposizioni contenute nei decreti di attuazione della delega fiscale, assicurando una migliore e più efficace affermazione dei principi e dei criteri direttivi dell’azione di riforma di cui alla legge n. 111/2023 Riforma Fiscale.

    Il comma 1 contiene misure correttive in materia di contenzioso tributario, dirette a realizzare compiutamente il principio fissato all’art. 19, comma 1, lettera b), della legge n. 111/2023, riguardante la completa digitalizzazione del processo tributario telematico.

    In particolare, la lettera a) modifica il comma 5-bis dell’articolo 25-bis del D.lgs. n. 546/1992, introdotto dal recente decreto legislativo delegato n. 220/2023.

    L’intervento proposto è finalizzato a confermare l’obbligo del difensore di attestare la conformità della copia informatica al documento analogico da lui detenuto, con la conseguenza che il giudice non terrà conto degli atti e documenti cartacei, depositati con modalità digitali, sprovvisti di tale attestazione di conformità.

    Sul tema vi è stata polemica a seguito dell’interpretazione restrittiva fornita dagli Uffici del MEF, che avevano parlato della necessità di attestare la conformità all’originale di qualsiasi documento depositato.

    In realtà, l’attestazione di conformità andrà fornita in relazione al documento che il professionista riceve dal cliente, a prescindere dal fatto che si tratti della copia originale.

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    Processo tributario: PEC non valida nessun obbigo di secondo invio

    Con Ordinanza n 3703 del 2025 la Cassazione hanno fissato un utile principio per le notifica via PEC. 

    In particolare viene statuito che In caso di notifica a mezzo pec di cui all’art. 60, d.p.r. n. 600/1973, ove l’indirizzo risulti non valido o inattivo, le formalità di completamento della notifica, costituite dal deposito telematico dell’atto nell’area riservata del sito internet della società (OMISSIS) e dalla pubblicazione, entro il secondo giorno successivo al deposito, dell’avviso nello stesso sito per quindici giorni, oltre all’invio di raccomandata, non devono essere precedute da un secondo invio dell’atto via pec decorsi almeno sette giorni, formalità riservata al solo caso in cui la notifica non si sia potuta eseguire perché la relativa casella risultava satura ai primo tentativo;”. 

    Notifiche via PEC: principio della Cassazione per PEC inattiva o non valida, cosa fare

    Il caso di specie nasceva dall’impugnazione da parte di una società contribuente di un’intimazione di pagamento basata su cartelle di pagamento che secondo la ricorrente, non erano state regolarmente notificate, con conseguente estinzione della pretesa impositiva per prescrizione e decadenza.

    La CTP accoglieva il ricorso della società ed anche la Commissione tributaria regionale lo confermava.

    L'Agenzia delle Entrate presentava ricorso per Cassazione, affidandosi a due motivi di impugnazione: 

    • il primo denunciava la violazione degli articoli 60 Dpr n. 600/1973, 26 Dpr n. 602/1973, e 2697 codice civile, poichè la notifica delle cartelle di pagamento in contestazione era valida pur in assenza del secondo invio nel termine dilatorio di sette giorni,
    • il secondo si opponeva alla sentenza impugnata laddove aveva erroneamente ritenuto decaduta la pretesa fiscale ai sensi dell’articolo 25, Dpr n. 602/1973.

    La Corte suprema ha esaminato i due motivi, ritenendoli entrambi fondati chiarendo quanto segue:

    • in caso di notifica a mezzo Pec, ai sensi dell’articolo 60, Dpr n. 600/1973, nei confronti di un’impresa, all’indirizzo risultante dall’indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata (Ini-Pec), qualora l’indirizzo del destinatario risulti non valido o inattivo, per il completamento della notifica (deposito telematico dell’atto nell’area riservata del sito InfoCamere e pubblicazione dell’avviso) non occorre prima effettuare un secondo tentativo di consegna dell’atto via Posta elettronica certificata decorsi almeno sette giorni dal primo invio. Tale obbligo sussiste solo nel caso in cui la casella Pec del destinatario risulti satura al primo tentativo di notifica.

    Secondo interpretazione letterale dell’articolo 60, Dpr n. 600/1973, si distinguono due ipotesi alternative: 

    • casella Pec satura, che richiede un secondo invio dopo almeno sette giorni, 
    • e indirizzo non valido o inattivo, per il quale la norma prevede direttamente il deposito telematico presso InfoCamere e la successiva pubblicazione dell’avviso; nonché a seguito di un ragionamento logico-sistematico, secondo cui non avrebbe senso imporre un secondo invio a un indirizzo Pec certificato come non valido o inattivo, poiché ciò costituirebbe un adempimento privo di utilità pratica.

    Pertanto i giudici hanno affermato che la notifica delle cartelle di pagamento deve considerarsi, nel caso di specie, valida e pertanto non si è verificata alcuna decadenza, in quanto il termine di cui all’articolo 25, Dpr n. 602/1973, non era ancora scaduto al momento della notifica.

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    Processo tributario: i messaggi whatsapp sono prove

    Secondo la Sentenza nn 1254 del 18 gennaio della Cassazione i messaggi di WhatsApp nel processo tributario hanno una valenza probatoria.

    Vediamo il caso di specie e la pronuncia della Suprema corte.

    Processo tributario: i messaggi whats app sono prove

    La Corte di Cassazione con la sentenza n 1254/2025 ha stabilito che i messaggi WhatsApp e gli sms conservati nella memoria di un telefono cellulare possono essere utilizzati come prova documentale nel processo civile, salvo contestazione di autenticità.

    Anche se la giurisprudenza passata aveva dato esito opposto, ora la Cassazione evidenzia che la messaggistica istantanea ha valore di piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosca la conformità ai fatti o alle cose.

    L’assunzione della prova dipende essenzialmente da due elementii: 

    1. l’autenticità della provenienza, ovvero che il messaggio deve provenire da un dispositivo identificabile e la trasmissione e la conservazione non ne abbiano alterato il contenuto; 
    2. l’affidabilità e integrità del contenuto e quindi la prova deve essere supportata da strumenti tecnici che dimostrino che il contenuto non è alterato.

    La controparte non ne deve contestare l’autenticità

    E' comunque fondamentale, un certo rigore nella valutazione dell’attendibilità, poiché si tratta di prove che coinvolgono la riservatezza dei soggetti coinvolti.

    Secondo la Suprema corte, tali tipi di messaggi WhatsApp rientrano nella categoria delle riproduzioni informatiche e delle rappresentazioni meccaniche disciplinate dall'art 2712 c.c. 

    Di rilieno appare anche che la Corte ha precisato che i messaggi possono essere acquisiti nel processo anche mediante la mera riproduzione fotografica, quali ad esempio gli screenshot estratti da una chat.

     Infine, la Cassazione ha chiarito che,benchè i messaggi WhatsApp non possano essere equiparati a una scrittura privata firmata ai sensi dell'art 2702 c.c., costituiscono comunque una prova documentale pienamente utilizzabile, salvo che la parte contro cui vengono prodotti non ne contesti espressamente l'autenticità.

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    Autotutela sostitutiva: il problema delle spese processuali

    La sentenza numero 30051 della Corte di Cassazione, pubblicata il 21 novembre 2024, ha legittimato la cosiddetta autotutela sostitutiva, peggiorativa per il contribuente; la quale consiste nella facoltà, concessa l’amministrazione finanziaria, di annullare un atto di accertamento, anche in sede processuale, e di poterne emettere uno nuovo, basato su una diversa valutazione dei fatti contestati nel primo atto, anche con una pretesa maggiore.

    Per un approfondimento dell’argomento è possibile leggere l’articolo “Legittima l’autotutela sostitutiva peggiorativa per il contribuente”.

    Che una facoltà di contestazione così strutturata costituisca un potere coercitivo dell’amministrazione finanziaria, nei confronti del contribuente, appare evidente; e la situazione si aggrava se si prendono in considerazione anche le spese processuali.

    Il problema delle spese processuali

    Trasportando sul piano processuale la facoltà di autotutela sostitutiva, concessa all’amministrazione finanziaria, ciò che può succedere è che, nel mezzo di una causa, l’ufficio annulli l’atto, rivaluti la pretesa originaria ed emetta un nuovo atto con una pretesa anche maggiore.

    Ciò è possibile perché l’esercizio di tale facoltà è concessa all’amministrazione finanziaria anche in sede processuale, e questo può comportare delle conseguenze per il contribuente.

    Infatti, per effetti dell’annullamento dell’atto, viene meno la materia del contendere, e, in conseguenza di ciò, il processo si estingue, come stabilito dall’articolo 46 del Decreto Legislativo 546/1992; in questa situazione, in cui il processo si estingue senza vincitori né vinti, in base all’articolo 15 del medesimo Decreto Legislativo 546/1992, si applica la compensazione delle spese.

    Poi, con l’emissione del nuovo atto di contestazione, il contribuente si trova nella situazione di dover sostenere nuovamente le spese processuali, dopo aver dovuto sostenere quelle per il primo processo, finito senza risultato per motivi non imputabili a questi.

    A tutti gli effetti, in sede processuale, la facoltà di autotutela peggiorativa potrebbe configurarsi come un jolly concesso all’amministrazione finanziaria per contestare ex novo una determinata pretesa, senza neanche dover sostenere le spese processuali.

    Per il contribuente, che si potrebbe ritrovare a dover sostenere i costi di più processi, tale situazione rappresenterebbe in un notevole aggravio. Già oggi molti contribuenti preferiscono non contestare pretese erariali che non condividono, per non dover sostenere l’onerosità del procedimento; se consideriamo che, in conseguenza dell’autotutela sostitutiva, tali costi potrebbero ulteriormente lievitare, va da sé che ciò costituisce una compressione del diritto di difesa del contribuente per eccessiva onerosità della procedura.

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    Testo Unico Giustizia Tributaria: cosa contiene

    Il Governo ha approvato in data 30 ottobre tre Testi Unici in via definitiva:

    • Testo Unico Giustizia Tributaria,
    • Testo Unico Tributi Erariali Minori,
    • Testo Unico Sanzioni.

    In attesa del testo approvato ieri che potrebbe aver subito cambiamenti rispetto alla prima approvazione, ripiloghiamo i principali contenuti e le finalità del provvedimento, evidenziando che anche questo testo unico, dovrebbe entrare in vigore dal 2026.

    Leggi anche:

    Testo Unico Giustizia Tributaria: come è composto

    In particolare viene specificato che il Decreto legislativo relativo al testo unico della giustizia tributaria in esame preliminare ha carattere compilativo ed è stato elaborato coerentemente all’articolo 21, comma 1, della legge 9 agosto 2023, n. 111. 

    Il testo in bozza di preconsiglio dei ministri si compone di 131 articoli divisi in due Parti riguardanti:

    1. l’ordinamento della giurisdizione tributaria 
    2. le disposizioni sul processo tributario. 

    La Parte I, Titolo I, ripropone il Titolo I del decreto legislativo n. 545 del 1992; con riguardo alla funzione giurisdizionale tributaria, è stato definito che la stessa è esercitata dai magistrati tributari assunti con concorso pubblico e dai giudici tributari iscritti nel ruolo unico nazionale tenuto dal Consiglio di presidenza della giustizia tributaria. 

    La Parte II è suddivisa in n. 3 Titoli. I Titoli I e II ripropongono i pari Titoli del decreto legislativo n. 546 del 1992. Il Titolo III contiene le disposizioni finali, ovvero quelle abrogate in quanto riprese nel corpus della proposta di testo unico. 

    L'art 131 che chiude il testo ancora in bozza prevede che le disposizioni si applicano a decorrere dal 1° gennaio 2026. 

    Testo Unico Giustizia Tributaria: la giurisdizione tributaria

    Ai sensi dell'art 1 del Testo Unico in bozza viene previsto che la giurisdizione tributaria è esercitata dai magistrati tributari di cui al comma 4 e dai giudici tributari presenti nel ruolo unico nazionale di cui al comma 2.

    Nel ruolo unico nazionale dei componenti delle Corti di giustizia tributaria, tenuto dal Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, sono inseriti, ancorché temporaneamente fuori ruolo, i giudici tributari in servizio alla data di entrata in vigore del presente testo unico. 

    I giudici tributari, salvo quanto previsto nel terzo periodo, sono inseriti nel ruolo unico secondo la rispettiva anzianità di servizio nella qualifica. 

    I componenti delle Corti di giustizia tributaria nominati a seguito di appositi bandi pubblicati a partire da quello del 3 agosto 2011, Gazzetta Ufficiale, 4ª serie speciale, n. 65 del 16 agosto 2011, sono inseriti nel ruolo unico secondo l'ordine dagli stessi conseguito in funzione del punteggio complessivo per i titoli valutati nelle relative procedure selettive. 

    In caso di pari anzianità di servizio nella qualifica ovvero di pari punteggio, i componenti delle Corti di giustizia tributaria sono inseriti nel ruolo unico secondo l'anzianità anagrafica. 

    A decorrere dall'anno 2013, il ruolo unico è reso pubblico annualmente, entro il mese di gennaio, attraverso il sito istituzionale del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria.

    I magistrati tributari sono reclutati secondo le modalità previste dagli articoli da 5 a 8.

    L’organico dei magistrati tributari è individuato in 448 unità presso le corti di giustizia tributaria di primo grado e 128 unità presso le corti di giustizia tributaria di secondo grado. 

    I criteri di valutazione e i punteggi di cui alla tabella C allegata al presente decreto sono modificati, su conforme parere del consiglio di presidenza della giustizia tributaria, con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze.

  • Contenzioso Tributario

    Adempimenti dell’amministratore giudiziale nel sequestro preventivo

    Con Risoluzione n 45 del 2 settembre le Entrate si occupano di chiarire gli Adempimenti fiscali dell'amministratore giudiziale.

    In sintesi facendo riferimento alle modifiche normative che hanno interessato il sequestro preventivo in ambito penale, l’Agenzia delle entrate fa il punto sugli obblighi dichiarativi e di versamento cui è tenuto l'amministratore giudiziale ai fini fiscali, confermando con il documento i chiarimenti già forniti con precedenti documenti di prassi.

    Di seguito tutti i chiarimenti

    Adempimenti fiscali dell’amministratore giudiziale

    Con la Risoluzione n 45 del 2 settembre viene confermato quanto segue:

    • l'amministratore giudiziale deve presentare le dichiarazioni dei redditi (modelli Redditi PF, Irap e 770) per conto del soggetto sequestrato, indicando il codice fiscale del sequestrato e i propri dati come rappresentante. Nel modello Redditi PF deve essere barrata la casella "tutelato" per indicare che la dichiarazione è presentata dall'amministratore per beni sequestrati.
    • durante il periodo di sequestro o confisca non definitiva, è prevista la sospensione del versamento delle imposte patrimoniali come IMU e TASI, senza però esonerare l'amministratore dagli altri obblighi fiscali, come la presentazione delle dichiarazioni.
    • l'esenzione dalle imposte di registro, ipotecarie, catastali e di bollo sugli atti relativi ai beni sequestrati durante l'amministrazione giudiziaria.
    • il reddito generato dai beni immobili sequestrati, anche se locati, non concorre alla determinazione del reddito imponibile del soggetto sequestrato, in conformità alle disposizioni del TUIR (Testo Unico delle Imposte sui Redditi), a meno che la misura cautelare non venga revocata.
    • in caso di revoca della confisca, l'amministratore giudiziario deve notificare all'Agenzia delle Entrate e agli enti competenti la cessazione del suo incarico, affinché le imposte relative al periodo di sequestro vengano liquidate al soggetto che riacquista la disponibilità dei beni.

    La Risoluzione n. 45/2024 conferma che, nonostante le recenti modifiche legislative, l'amministratore giudiziario resta responsabile degli adempimenti fiscali relativi ai beni sequestrati fino alla conclusione della misura cautelare o fino alla confisca definitiva.