• Contenzioso Tributario

    Autotutela PA: ridotti i termini per procedere

    La Legge del 02.12.2025 n. 182, recante "Disposizioni per la semplificazione e la digitalizzazione dei procedimenti in materia di attività economiche e di servizi a favore dei cittadini e delle imprese" continene una norma con la riduzione dei termini di autotutela per gli atti della PA, vediamo i dettagli.

    Ridotto i termini dell’autotutela nella Legge sulle semplificazioni

    L’articolo 1 riduce da dodici a sei mesi il termine entro il quale lepubbliche amministrazioni possano procedere all’annullamento di ufficio
    dei provvedimenti amministrativi di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici.

    A tal fine, la disposizione modifica l’articolo 21-nonies, comma 1, della legge 7 agosto 1990, n. 241, che disciplina in via generale, nell’ambito dei procedimenti di autotutela della pubblica amministrazione, l’annullamento d’ufficio, con il quale l’amministrazione rimuove il provvedimento di primo grado.

    L’annullamento può essere disposto dallo stesso organo che ha emanato il provvedimento o da altro organo previsto dalla legge.
    Come evidenzia il dossier alla legge, secondo la giurisprudenza consolidata, che è stata recepita nella legge n. 241/1990 con la riforma del 2005, i presupposti dell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio, che ha effetti ex tunc, sono:

    •  l’illegittimità originaria del provvedimento, ex art. 21-octies comma 1 della legge 241/1990, ossia nei casi classici di provvedimento illegittimo per violazione di legge, eccesso di potere e incompetenza;
    • l’interesse pubblico concreto e attuale alla sua rimozione, diverso dal mero ripristino della legalità;
    • l’assenza di posizioni consolidate in capo ai destinatari. 

    Ne risulta che l’annullamento è provvedimento discrezionale, chiamato a ponderare l’interesse pubblico alla rimozione del provvedimento invalido con gli altri interessi dei soggetti coinvolti.
    L’esercizio di questo potere discrezionale non esime l’amministrazione dal dare conto della sussistenza dei menzionati presupposti. Ai sensi dell’art. 21 nonies, co. 1, della L. 241 del 1990 l’annullamento d’ufficio va adottato «entro un termine ragionevole», decorso il quale
    l’amministrazione decade dal potere. Ciò a garanzia della certezza del diritto e della tutela dell’affidamento legittimo di coloro ai quali ilmprovvedimento di primo grado da eliminare abbia recato vantaggio.
    Per eliminare incertezze nei rapporti giuridici rispetto alla valutazione discrezionale della ragionevolezza del termine, la legge n. 124 del 2015 (art. 6) aveva specificato che tale termine non fosse comunque superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione del provvedimento di primo grado per i casi di annullamento d’ufficio dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, anche ove si tratti di provvedimenti formatisi a seguito di silenzio-assenso.
    Il legislatore è nuovamente intervenuto in materia con il D.L. n. 77 del 2021 (art. 63, co. 1) disponendo una riduzione del termine da diciotto a dodici mesi, al fine di “consentire un più efficace bilanciamento tra la tutela del legittimo affidamento del privato interessato e l’interesse pubblico”.
    Con la disposizione in esame, il limite temporale massimo per procedere all’annullamento d’ufficio viene ulteriormente ridotto a sei mesi.
    In base alla relazione illustrativa che accompagna il disegno di legge l’ulteriore riduzione risponde all’esigenza di salvaguardare il legittimo affidamento ingenerato nei destinatari del provvedimento.
    Conseguentemente, per ragioni di coerenza interna del testo normativo, si modifica il riferimento al termine, da dodici a sei mesi, anche al comma 2-bis dell’articolo 21-nonies della L. 241/1990 il quale dispone che l’esercizio del potere di autotutela potrà essere esercitato anche dopo la scadenza del termine di cui al comma 1, in caso di provvedimenti conseguiti sulla base di condotte costituenti reato che abbiano determinato un falso presupposto per l’adozione del provvedimento e siano state accertate con sentenze passate in giudicato.

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    Valore probatorio del PVC della Finanza: principio della Cassazione

    Con Ordinanza 25 ottobre 2025, n. 28340, la Cassazione ha chiarito che in tema di accertamenti tributari, il processo verbale di constatazione assume un valore probatorio diverso a seconda della natura dei fatti da esso attestati, potendosi distinguere al riguardo un triplice livello di attendibilità: 

    a) il verbale è assistito da fede privilegiata, ai sensi dell'art. 2700 c.c., relativamente ai fatti attestati dal pubblico ufficiale come da lui compiuti o avvenuti in sua presenza o che abbia potuto conoscere senza alcun margine di apprezzamento o di percezione sensoriale, nonché quanto alla provenienza del documento dallo stesso pubblico ufficiale ed alle dichiarazioni a lui rese; 

    b) quanto alla veridicità sostanziale delle dichiarazioni a lui rese dalle parti o da terzi – e dunque anche del contenuto di documenti formati dalla stessa parte e/o da terzi – esso fa fede fino a prova contraria, che può essere fornita qualora la specifica indicazione delle fonti di conoscenza consenta al giudice ed alle parti l'eventuale controllo e valutazione del contenuto delle dichiarazioni; 

    c) in mancanza della indicazione specifica dei soggetti le cui dichiarazioni vengono riportate nel verbale, esso costituisce comunque elemento di prova, che il giudice deve in ogni caso valutare, in concorso con gli altri elementi, potendo essere disatteso solo in caso di sua motivata intrinseca inattendibilità o di contrasto con altri elementi acquisiti nel giudizio, attesa la certezza, fino a querela di falso, che quei documenti sono comunque stati esaminati dall'agente verificatore (così Cass. V, n. 2860/2017; cfr., altresì, cfr. n. 24461/2018 e n. 18420/2024).
    Non può quindi accordarsi fede privilegiata a quello su cui il pvc tace.  La mancata descrizione di un'ulteriore porta -oltre a quella di ingresso- nella stanza di lavoro del contribuente non equivale all'attestazione che una porta non ci sia: il silenzio non equivale ad attestazione negativa, assistita da fede privilegiata.

    Vediamo i fatti di causa.

    Accessi nei locali promiscui, il Fisco ha bisogno dell’autorizzazione

    Con l’Ordinanza n. 28340 del 25 ottobre 2025, la Corte di Cassazione torna sul tema delicato degli accessi nei locali promiscui da parte dell’Amministrazione finanziaria, rafforzando le garanzie del contribuente.

    La vicenda riguarda il titolare di uno studio tecnico di infortunistica stradale, esercitato all’interno di un ambiente seminterrato di circa 15 mq, ricavato nello stesso edificio in cui viveva con la madre.

    La Guardia di Finanza aveva eseguito un’ispezione nel 2015 senza previa autorizzazione della Procura, dando luogo a un accertamento per compensi non dichiarati, fondato sul processo verbale (PVC) redatto in quell’occasione. Il contribuente aveva contestato la legittimità dell’accesso, sostenendo che si trattasse di locale ad uso promiscuo e quindi accessibile solo con autorizzazione del magistrato.

    La questione non è nuova, ma la Suprema Corte la affronta con rigore sistematico e – soprattutto – enuncia un principio di grande utilità per la pratica difensiva. 

    Se il locale è ad uso promiscuo e la comunicazione con l’abitazione è “agevole”, l’accesso richiede l’autorizzazione della Procura.

    Il concetto chiave è proprio l’“agevole comunicazione” tra lo spazio lavorativo e la parte abitativa: non basta la presenza di una porta o di un varco; occorre che vi sia effettiva continuità e facilità di accesso che permetta, ad esempio, il passaggio agevole di documenti contabili.

    La Cassazione, con motivazione articolata, ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, cassando la sentenza favorevole al contribuente e rinviando la causa al giudice di merito per un nuovo esame più approfondito.

    Ecco i passaggi salienti della motivazione:

    Errore probatorio della CTR: la Commissione Tributaria Regionale aveva fondato la propria decisione su fotografie e planimetrie non attuali rispetto alla data dell’ispezione (alcune precedenti, altre successive), senza dimostrarne la rilevanza effettiva o l’idoneità a dimostrare l’agevole collegamento tra studio e abitazione.

    La Corte ha ribadito che il silenzio del verbale su un certo elemento (in questo caso, la porta di comunicazione) non equivale a prova contraria, né gode di fede privilegiata, non si può dire, insomma, che “se il PVC non lo cita, allora non esiste”.

    La gerarchia delle prove va rispettata:

    • il giudice deve valutare la credibilità delle prove, ma spiegando perché attribuisce maggiore attendibilità a certe fonti rispetto ad altre. In questo caso, la CTR non aveva motivato adeguatamente.

    La Suprema Corte ha ribadito un principio chiave per chi si occupa di contenzioso fiscale: 

    • “Il locale è ad uso promiscuo quando esiste un collegamento interno che consente l’agevole comunicazione con l’abitazione, tale da permettere il facile trasferimento di documenti. In tal caso, l’accesso richiede l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica.”

    Il principio, già espresso in precedenti pronunce come Cass. n. 21411/2020 e Cass. n. 7723/2018, viene ora consolidato in una fattispecie concreta, che rende il concetto più operativo.

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    Udienza tributaria da remoto: nulla se effettuata al telefono

    In un mondo sempre più dematerializzato e in un processo sempre più telematico, si pone il problema delle legittime modalità di svolgimento delle udienze da remoto, quelle udienze che si svolgono senza la presenza fisica dei partecipanti.

    Della questione si è occupata la Corte di Cassazione con l’ordinanza numero 20836, depositata il 23 luglio 2025, con la quale il ricorrente contestava le modalità di svolgimento dell’udienza di appello nell’ambito del processo tributario: infatti, nel caso in esame, un membro del collegio giudicante, a sua volta composto da tre membri, era collegato solo telefonicamente.

    Secondo la Corte di cassazione, in una udienza che si svolga da remoto, è necessario che le modalità di collegamento dei partecipanti abbiano caratteristiche tali da assicurare le fondamentali garanzie del processo: a questo fine è necessario che il collegamento dei partecipanti avvenga in videoconferenza, con collegamento sia video che audio, non essendo sufficiente il solo collegamento telefonico.

    La mancanza del collegamento audiovisivo da parte di tutti partecipanti costituisce una irregolare modalità di partecipazione, tale da compromettere il processo per irregolare costituzione del collegio e, di conseguenza, rendere nulla la sentenza in modo insanabile.

    Le motivazioni della decisione

    Secondo i giudici della Corte di Cassazione, infatti, il collegamento con sistema audio-visivo costituisce l’unica modalità di partecipazione capace di garantire:

    • il contraddittorio tra le parti;
    • la pubblicità dell’udienza;
    • la parità di condizioni tra tutti i partecipanti.

    Secondo quanto disposto con l’ordinanza numero 80836/2025, il collegamento con modalità telefonica non può soddisfare tutti questi requisiti, in quanto la partecipazione di uno dei giudici con collegamento solo audio non garantisce che questi abbia visto e sentito correttamente la discussione e non assicura la partecipazione paritaria rispetto agli altri membri del collegio.

    Secondo quanto disposto dall’articolo 2, comma 5, del Decreto Legislativo numero 545/1992, nell’ambito del processo tributario i collegi giudicanti sono composti da tre membri effettivi e invariabili, se uno di questi partecipa con modalità che non si possono considerare conformi, secondo la Carte di Cassazione è inevitabile che l’intero collegio debba essere considerato irregolarmente formato.

    Di conseguenza la sentenza è inevitabilmente nulla, affetta da nullità insanabile, ai sensi dell’articolo 158 del Codice di procedura civile, norme che si applicano anche al processo tributario ai sensi dell’articolo 1, comma 2, del Decreto Legislativo 546/1992.

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    CPB: in arrivo il nuovo Ravvedimento speciale

    Un emendamento del presidente della Commissione Finanze, Marco Osnato, al recente Decreto Fiscale cerca di aprire la strada a una riedizione del Ravvedimento speciale, che interesserebbe i contribuenti che aderiscono al Concordato Preventivo Biennale.

    Lo scorso anno, per i contribuenti che hanno aderito al CPB, c’è stata la possibilità di sanare eventuali violazioni tributarie avvenute negli anni  precedenti in modo semplificato, pagando delle sanzioni forfettizzate, evitando così di incorrere in un accertamento tributario.

    La nuova proposta di Ravvedimento speciale da un punto di vista strutturale dovrebbe ricalcare quello dello scorso anno, configurando il medesimo sistema di scudo fiscale sulle annualità precedenti, con il medesimo obiettivo di stimolare l’accettazione della proposta di CPB; con maggiore precisione, sembrerebbe che per quest’anno sarà possibile scudare:

    • le annualità dal 2019 al 2023, per chi aderisce quest’anno al CPB;
    • anche il 2023, per chi ha aderito lo scorso anno.

    Potranno accedere al Ravvedimento speciale solo coloro che hanno aderito al CPB, versando una imposta sostitutiva sui redditi già dichiarati, con un’aliquota che cresce al decrescere dell’affidabilità fiscale del contribuente:

    • aliquota del 10%, per chi ottiene un punteggio ISA pari o superiore al 9;
    • aliquota del tributarie 12%, per chi ottiene un punteggio ISA compreso tra 6 e 8;
    • aliquota del  15%, per chi ottiene un punteggio ISA inferiore a 6.

    La base imponibile su cui applicare l’imposta sostitutiva è costituita dai redditi già dichiarati in ogni annualità, incrementati di una quota che varia in base al punteggio ISA del contribuente; ottenuta applicando ai redditi dichiarati una aliquota:

    • del 5%, per chi ottiene un punteggio ISA pari a 10;
    • del 10%, per chi ottiene un punteggio ISA compreso tra 8 e 10;
    • del 20%, per chi ottiene un punteggio ISA compreso tra 6 e 8;
    • del 30%, per chi ottiene un punteggio ISA compreso tra 4 e 6;
    • del 40%, per chi ottiene un punteggio ISA compreso tra 3 e 4;
    • del 50%, per chi ottiene un punteggio ISA inferiore a 3.

    Per accedere al Ravvedimento speciale il contribuente dovrebbe corrispondere una imposta minima di mille euro per ogni annualità, che sostituisce l’IRPEF o l’IRES, da versare (l’unica rata o la prima rata) entro il 31 marzo 2026.

    Le reazioni

    Come detto, l’obiettivo dell’emendamento, è quello di aumentare l’appeal di uno strumento, il Concordato Preventivo Biennale, fortemente voluto da questo governo, ma che non riesce a sfondare tra i contribuenti, con una adesione ancora molto limitata.

    Non si sono registrate particolari dichiarazioni da parte del governo, che tira dritto verso l’iter di approvazione; ma al contrario si è registrata la reazione dell’opposizione: Maria Cecilia Guerra, responsabile lavoro del PD, parla infatti di “condono” e dell’ennesimo tentativo di “piegare la leva fiscale a una concezione profondamente clientelare: provvedimenti di favore per gruppi ben identificati di contribuenti, con l’obiettivo evidente di ottenerne il sostegno elettorale”.

    Da un punto di vista di politico, uno strumento pensato come il Ravvedimento speciale può essere facile da approvare o da criticare a seconda delle diverse visioni delle cose; quel che però esula da queste differenze di vedute è il fatto che, così come il CPB, anche il Ravvedimento speciale non ha avuto larga diffusione presso il grande pubblico delle partite IVA.

    Il fatto ineludibile è che, in un paese con una pressione fiscale come quella che c’è in Italia, è difficile che un contribuente che non ha nulla da nascondere, decida di versare ancora ulteriori imposte solo per accertarsi di non subire controlli da parte del fisco.

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    Ristretta base partecipativa: vale anche se i soci sono altre società

    Con società a ristretta base partecipativa si intende una società di capitali partecipata da un numero esiguo di soci, che, da un punto di vista operativo, si distingue da una società a capitale diffuso per il fatto che i soci possono avere un controllo diretto e permeante sulla società.

    Dal punto di vista fiscale il legislatore non ha previsto una situazione di sfavore per le società che si trovano in questa situazione, ma giurisprudenza e prassi hanno inventato una presunzione semplice, su cui oggi si basano un gran numero di accertamenti nei confronti dei soci di società con numero esiguo di soci.

    L’ipotesi è che, in una società a ristretta base partecipativa, nel momento in cui vengono contestati ricavi non contabilizzati o costi inesistenti, il maggior reddito conseguito dalla società (quello scaturente dalla contestazione) sia stato già distribuito ai soci, i quali a loro volta divengono oggetto di accertamento fiscale.

    La logica vorrebbe che una tale contestazione restasse in capo alla società, il soggetto giuridico che ha conseguito l’eventuale maggior reddito, come previsto dal legislatore; secondo giurisprudenza e prassi, invece, è legittimo ritenere che tale maggior reddito sia stato distribuito, a meno che i soci non siano in grado di dimostrare il contrario.

    La motivazione che sta alla base di questa contestazione è la presunzione che la ristrettezza dell'assetto societario implica un vincolo di solidarietà, e di reciproco controllo, dei soci nella gestione sociale, che non c’è invece in una società a capitale diffuso.

    In principio questa presunzione semplice veniva applicata alle sole SRL, e si ipotizzava che questo fatto derivasse dalla natura di questo tipo di società, divenute, in conseguenza della riforma del diritto societario, una sorta di via di ibrido tra società di persone e società di capitali.

    Con il passare del tempo però la presunzione è stata estesa anche alle SPA, e infine, oggi, persino al caso in cui i soci di una società oggetto di contestazione siano altre società, non importa se di capitali o di persone.

    Questo tipo di contestazione è divenuta così frequente e dal perimetro di applicazione sempre più ampio, che, nell’ambito della riforma fiscale, l’attuale governo aveva previsto di disciplinare la fattispecie in modo tale da definire almeno il perimetro di applicazione e le fattispecie contestabili.

    A qualcuno potrebbe sembrare strano il fatto che il legislatore avrebbe dovuto inserire nell’ordinamento una norma per mettere freno a delle contestazioni che non sono basate su altre norme, ma bisogna ammettere che l’intervento sarebbe stato auspicabile, quantomeno per ricostituire un livello minimo di certezza del diritto su questa questione. 

    Questione, va detto, che frena la diffusione delle società di capitali, in un paese in cui notoriamente le imprese sono troppo piccole e tendenzialmente individuali.

    L’ordinanza 16035 del 16 giugno 2025

    Con l’ordinanza numero 16035, pubblicata il 16 giugno 2025, la Corte di Cassazione estende il perimetro di applicazione della presunzione di distribuzione di utili extracontabili ai soci di una società a ristretta base partecipativa anche al caso in cui i partecipanti alla società siano altre società, non importa se di capitali o di persone.

    Secondo la Corte la presunzione “non è neutralizzata dallo schermo della personalità giuridica, ma estende la sua efficacia a tutti i gradi di organizzazione societaria per i quali si riscontri la ristrettezza della compagine sociale”; ciò che deve essere valutato è se ogni livello societario, caratterizzato dalla ristrettezza della compagine sociale, costituisca o meno “un mero schermo rispetto alle persone fisiche, valido civilisticamente ma non opponibile al fisco”.

    In ragione di ciò, la Corte di Cassazione, con l’ordinanza 16035/2025 emana il seguente principio di diritto: “in materia di imposte sui redditi, nell'ipotesi di società di capitali a ristretta base sociale, la presunzione di attribuzione ai soci di maggiori utili, in corrispondenza di costi risultanti dalle scritture contabili ma disconosciuti, opera anche nel caso in cui la compagine sociale si componga esclusivamente di società, sia di persone sia di capitali, senza che ciò si ponga in contrasto con il divieto di presunzione di secondo grado, allorquando il fatto noto è dato dalla ristrettezza dell'assetto societario che implica un reciproco controllo dei soci nella gestione sociale con conseguente vincolo di solidarietà”.

    Il principio emanato, a prescindere dal fatto che l’idea possa essere condivisa o meno, può presentare delle difficoltà di ordine concreto, in quanto non è chiaro in che maniera, materialmente, una società, socia di un’altra società, possa dimostrare il fatto di non aver ricevuto utili extracontabili, dato che questi già non sono iscritti nelle sue scritture contabili.

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    Ristretta base partecipativa: presunzione di distribuzione anche per i soci di SPA

    Quando la proprietà di una società di capitali è divisa tra pochi soci, questa si può definire a ristretta base partecipativa.

    Quando, in sede di contenzioso tributario, a una società di capitali a ristretta base partecipativa viene contestata l’inesistenza di costi o maggiori ricavi non contabilizzati, chi contesta presume che la società abbia occultato degli utili e li abbia distribuiti ai propri soci.

    In conseguenza di ciò, oltre alla contestazione di maggiori imposte per la società, viene anche contestato il maggior reddito ai soci.

    Una tale distribuzione è difficile che possa essere provata dall’amministrazione finanziaria, ma chi contesta presume che ci sia stata e richiede la prova contraria a carico dei soci, che però non è meno difficile da provare.

    L’applicazione di un tale sistema di contestazione per tutta evidenza sfavorisce le imprese con pochi soci rispetto a quelle con ampia base partecipativa.

    Oggi la contestazione di distribuzione di utili extra contabili in capo ai soci di società di capitali a ristretta base partecipativa costituisce una situazione molto frequente.

    Ciò che più caratterizza questa contestazione è il fatto che non ci sia una inesistenza norma che esplicitamente la preveda: il legislatore tributario italiano non ha mai previsto un sistema sanzionatorio di sfavore per le società a ristretta base partecipativa.

    Non sorprenderà il lettore che l’origine di questo sistema discenda dall’azione congiunta di giurisprudenza e prassi, le quali, superando il legislatore, hanno costruito una nuova fattispecie tributaria.

    In termini pratici il fatto che il legislatore non abbia mai previsto questa situazione non tutela in nessun modo il contribuente perché, dopo che tale contestazione viene avanzata, se il contribuente propone ricorso basandosi sul fatto che non esista una norma a fondamento della pretesa, di norma perde il ricorso.

    In origine queste contestazioni riguardavano per lo più le SRL, una tipologia societaria che, dopo la riforma del diritto societario, ha smesso di essere una sorta di mini-SPA, come era in origine, per assumere una sorta di forma ibrida tra società di capitali e società di persone. Possibilmente è stato proprio lo stato intrinsecamente ambiguo della natura della SRL a dare il via questo a questo tipo di contestazioni; la notizia però è che oggi, invece, queste contestazioni sono possibili anche per le SPA, come avvenuto in occasione della sentenza 7815/2025. E quindi, di conseguenza, a tutte le società di capitali, nel momento in cui si riscontra un numero esiguo di soci.

    Uno dei problemi di una fattispecie non definita da una norma, a prescindere dal fatto che sia intrinsecamente sostenuta dal buon senso o meno, è il fatto che non è possibile definirne chiaramente il perimetro di applicazione. Proprio per questo motivo, a tutela del contribuente, nel contesto della riforma fiscale, l’articolo 17 della Legge delega prevedeva l’emanazione di una norma di diritto positivo per definire situazioni e contestazioni; ma purtroppo, ad oggi, la delega non ha avuto attuazione.

    Per approfondimento è possibile leggere l’articolo “Riforma fiscale: la società a ristretta base partecipativa”.

    La sentenza numero 7815/2025 della Corte di Cassazione

    Con la sentenza numero 7815, pubblicata il 24 marzo 2025, la Corte di Cassazione affronta il caso in cui la contestazione di distribuzione di utili extra bilancio, presunta in conseguenza della ristretta base partecipativa, sia stata avanzata ai soci di una SPA.

    Nel caso in esame i presunti utili derivavano da minori costi deducibili contestati alla società, nello specifico per disconoscimento di perdite su crediti e costi per operazioni verso paesi cosiddetti black list, per i quali, semplificando per brevità, la società non è stata in grado di dimostrare la convenienza economica.

    Il disconoscimento di costi porta alla contestazione di un maggior reddito in capo alla società; e, in conseguenza della ristretta base societaria, alla presunzione di distribuzione ai soci con contestazione di omesso versamento delle ritenute.

    Uno dei soci della SPA ha proposto ricorso in Cassazione asserendo l’errata applicazione del sistema di sfavore previsto, da giurisprudenza e prassi, in caso di ristrettezza della base societaria; a sostegno della sua tesi il socio affermava che:

    • la società era una SPA (e non una SRL);
    • non c’erano legami di parentela tra i soci.

    Come anticipato, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, considerando la fattispecie pienamente applicabile anche al caso in esame.

    Infatti secondo la Corte “risulta la piena compatibilità fra la presunzione di distribuzione di utili extra-contabili e la forma di SPA”, mentre l’esistenza di rapporti di parentela non è una condizione necessaria per l’applicazione della presunzione in esame, in quanto il numero esiguo di soci, anche non parenti, implica un vincolo di solidarietà e di reciproco controllo nella gestione sociale, tale da poter legittimamente presumere la conoscenza degli affari sociali e, di conseguenza, dell’utile extra-bilancio.

    In conseguenza di ciò, la Corte di Cassazione emana il seguente Principio di diritto: “Per l’applicazione della presunzione di distribuzione degli utili extracontabili fra i soci di una società a ristretta base azionaria, fondata sul disposto di cui all’articolo 39, primo comma, lettera d) del DPR numero 600/1973 – non è necessario che tra i soci stessi sussista un legame di parentela, né è ostativo che la società stessa rivesta la natura di società per azioni, essendo sufficiente la ristrettezza della base sociale che implica in sé di norma un elevato grado di compartecipazione dei soci, la conoscenza degli affari sociali e la consapevolezza dell’esistenza di utile extrabilancio”.

    La sentenza 7815/2025, quindi, amplia il perimetro della fattispecie della ristretta base partecipativa anche alle SPA. Alla luce della frequenza della contestazione e delle difficoltà per il contribuente a difendersi da una presunzione i cui confini non sono chiaramente definiti, sarebbe auspicabile l’emanazione di una norma di diritto positivo capace di instillare un po’ di certezza del diritto; come del resto già previsto dalla legge delega sulla riforma fiscale.

      

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    Vendite continue su Ebay: è reddito d’impresa

    La sentenza numero 7552 della Corte di Cassazione, pubblicata il 21 marzo 2025, prende in esame il caso di un privato, non titolare di partita IVA, che effettua un elevato numero di vendite attraverso il portale Ebay nell’arco di diversi anni.

    L'accertamento fiscale era “fondato su una presunzione legale di redditività delle movimentazioni bancarie accertate e non giustificate dal contribuente”; il fatto che questi avesse effettuato un significativo numero di vendite, nell’arco di un periodo lungo diversi anni, secondo l’Agenzia delle Entrate era condizione sufficiente per contestare a la produzione di redditi d’impresa e, in base a ciò, ricostruire l’imponibile proprio in base alle movimentazioni bancarie.

    Secondo il contribuente, nella situazione in esame, non essendo presente un’attività economica organizzata non si sarebbe potuto contestare la produzione di reddito di d’impresa, ma solo di redditi diversi; posizione che è stata censurata dalla Corte di Cassazione in quanto, secondo questa, l’abitualità e la continuità intrinseche nel fatto di aver effettuato un elevato numero di vendite on line per diversi anni sono requisiti sufficienti per configurare la produzione di redditi d’impresa, a nulla rilevando in questo senso la mancanza di una struttura organizzativa e, a ben vedere, neanche l’importo totale delle vendite.

    Infatti la contestazione di produzione di redditi d’impresa si è basata sull’effettuazione di un elevato numero di vendite, requisito sufficiente a configurare abitualità e prevalenza, a prescindere dall’importo totale delle vendite effettuate; quest’ultimo elemento è di certo importante per la quantizzazione della richiesta economica in sede di contenzioso, ma non costituisce una variabile utile a distinguere i redditi d’impresa dai redditi diversi, come è noto.

    Il fondamento del diritto

    Il motivo per cui la Corte di Cassazione ha considerato redditi di impresa gli introiti del contribuente in questa situazione è che l’elevato numero di vendite, effettuate per un periodo lungo diversi anni, configura una situazione di abitualità dell’attività svolta, e “l'esercizio delle attività di cui all'articolo 2195 del Codice civile, se abituale, determina sempre la sussistenza di un' impresa commerciale, indipendentemente dall'assetto organizzativo scelto”.

    Quindi il punto è la qualificazione del venditore come imprenditore. 

    L’oggetto del contendere si basa sul fatto che “l'articolo 2082 Codice civile considera imprenditore chi svolge un'attività economica organizzata in modo professionale, mentre l'articolo 55 TUIR non richiede il requisito dell'organizzazione, ma la mera professione abituale delle attività di cui all'articolo 2195 Codice civile, anche non svolta in modo esclusivo”.

    Tuttavia è consolidata la giurisprudenza nel constatare che normativa civilistica e quella fiscale divergano nell’identificazione dell’imprenditore, essendo richiesta dalla prima una “organizzazione” che non è invece richiesta dalla seconda.

    Infatti, dal punto di vista tributario, è imprenditore colui che effettua una attività commerciale per “professione abituale”, anche senza esclusività della stessa, e a prescinde da una eventuale organizzazione d’impresa.

    Motivo per cui, un contribuente che effettua una pluralità di vendite tramite un marketplace, anche se svolge altra attività lavorativa, situazione questa che non presenta i requisiti né dell’organizzazione né della prevalenza, produce comunque redditi d’impresa in base al principio dell’abitualità.

    Il problema dell’autofattura

    Nella situazione esaminata, una volta contestata al contribuente la produzione di reddito d’impresa, sorge, di conseguenza, un problema in relazione agli acquisti.

    Infatti, in questa situazione, con il reddito d’impresa che viene ricostruito in base alle movimentazioni bancarie, quelle in uscita sono considerate acquisti di merce destinata alla rivendita, ma irregolari, in quanto non supportati da fattura.

    Torna applicabile allora l’articolo 6 comma 8 del Decreto Legislativo 471/1997, il quale prevede che, nel momento in cui un soggetto esercente attività d’impresa fa un acquisto, ma il cessionario non rilascia la fattura, questi deve provvedere all’emissione di un’autofattura, che, nella situazione in esame, non era stata prodotta dal contribuente.

    Dal punto di vista sostanziale, la questione più importante, in termini di contenzioso, è sapere quali sanzioni sono applicabili al contribuente in questa situazione di mancata autofatturazione: secondo la Corte di Cassazione “sul tema dell'erronea applicazione dell'IVA ai prelievi accertati, i quali, quando hanno natura di acquisti effettuati dal cessionario senza ricevere la fattura dal venditore e senza regolarizzarli, sono rimproverabili soltanto con la sanzione di cui all'articolo 6, comma 8 del Decreto Legislativo numero 471/1997”, in quanto è un principio giurisprudenziale, al quale si deve dare continuità quello secondo cui “in tema di IVA, a seguito dell'entrata in vigore dell'articolo 6, comma 8, del Decreto Legislativo numero 471 del 1997, che ha sostituito l'articolo 41, comma 6, del DPR numero 633 del 1972 , il cessionario che non abbia ottemperato all'obbligo di autofatturazione, non è tenuto, anche per le infrazioni commesse nel vigore della previgente disciplina, al pagamento dell' imposta"”.

    Va comunque precisato che l’articolo 6 comma 8 del Decreto Legislativo 471/1997 prescrive che “il cessionario o il committente che, nell'esercizio di imprese, arti o professioni, abbia acquistato beni o servizi senza che sia stata emessa fattura nei termini di legge o con emissione di fattura irregolare da parte dell'altro contraente, è punito, salva la responsabilità del cedente o del commissionario, con sanzione amministrativa pari al cento per cento dell'imposta, con un minimo di euro 250, sempreché non provveda a regolarizzare l'operazione”.

  • Contenzioso Tributario

    Contenzioso tributario: l’attestazione di conformità non necessariamente su orginale

    Il Vice Ministro Leo durante l'apertura dell'anno giudiziario, in data 12 marzo, ha anticipato un chiarimento molto atteso per il Contenzioso Tributario. 

    Il tema è stato oggetto di una norma contenuta nel Correttivo approvato il 13 marzo dal CdM.

    In particolare, relativamente all’attestazione di conformità dei documenti inseriti nel fascicolo processualeva fatta sul documento analogico che viene presentato al professionista e quindi non necessariamente l’originale”. 

    Il chiarimento riguarda la corretta interpretazione del nuovo art. 25-bis comma 5-bis del DLgs. 546/92, introdotto dal DLgs. 220/2023 che prevede che "Il giudice non tiene conto degli atti e dei documenti su supporto cartaceo dei quali non è depositata nel fascicolo telematico la copia informatica, anche per immagine, munita di attestazione di conformità all’originale”. 

    Attestazione conformità nel contenzioso tributario: novità in arrivo

    L'artiolo 11 del Decreto Legislativo in bozza riguarda appunto Disposizioni integrative e correttive in materia di contenzioso tributario.

    Con tale intervento si persegue l’obiettivo di razionalizzare e semplificare alcune disposizioni contenute nei decreti di attuazione della delega fiscale, assicurando una migliore e più efficace affermazione dei principi e dei criteri direttivi dell’azione di riforma di cui alla legge n. 111/2023 Riforma Fiscale.

    Il comma 1 contiene misure correttive in materia di contenzioso tributario, dirette a realizzare compiutamente il principio fissato all’art. 19, comma 1, lettera b), della legge n. 111/2023, riguardante la completa digitalizzazione del processo tributario telematico.

    In particolare, la lettera a) modifica il comma 5-bis dell’articolo 25-bis del D.lgs. n. 546/1992, introdotto dal recente decreto legislativo delegato n. 220/2023.

    L’intervento proposto è finalizzato a confermare l’obbligo del difensore di attestare la conformità della copia informatica al documento analogico da lui detenuto, con la conseguenza che il giudice non terrà conto degli atti e documenti cartacei, depositati con modalità digitali, sprovvisti di tale attestazione di conformità.

    Sul tema vi è stata polemica a seguito dell’interpretazione restrittiva fornita dagli Uffici del MEF, che avevano parlato della necessità di attestare la conformità all’originale di qualsiasi documento depositato.

    In realtà, l’attestazione di conformità andrà fornita in relazione al documento che il professionista riceve dal cliente, a prescindere dal fatto che si tratti della copia originale.

  • Contenzioso Tributario

    Scomputo perdite in seguito ad accertamento: il modello IPEA

    L’utilizzo delle perdite fiscali, correnti e pregresse, in diminuzione dai redditi conseguiti e dichiarati costituisce fatto connaturato nella vita di una attività economica.

    Meno scontato è l’utilizzo di queste perdite nel caso in cui i redditi imponibili emergano in seguito ad attività di accertamento.

    Di ciò si occupa il comma 4 dell’articolo 42 del DPR 600/1973, il quale prevede che dai maggiori redditi  imponibili rilevati in seguito ad accertamento sono scomputate automaticamente le perdite correnti del periodo d’imposta oggetto di accertamento; dall’imponibile che residua possono anche essere scomputate le perdite pregresse non utilizzate, su richiesta del contribuente.

    Quindi, una volta emanato un avviso di accertamento, l’ufficio scomputa automaticamente le eventuali perdite fiscali correnti dello stesso periodo di imposta; nel caso in cui dovessero residuare importi imponibili, il contribuente può richiedere l’utilizzo delle perdite fiscali pregresse.

    La motivazione del diverso trattamento tra perdite correnti e perdite pregresse deriva dal fatto che l’utilizzo automatico delle perdite correnti costituisce una sorta di rettifica dell’esercizio oggetto di accertamento, per il quale le perdite fiscali rilevate dal contribuente vengono di fatto annullate dal maggior reddito rilevato in sede di accertamento. Il risultato di tale operazione sarà il corretto risultato dell’esercizio.

    Diversamente, l’utilizzo delle perdite pregresse, per compensare il maggiore imponibile risultante da un accertamento, costituisce una facoltà per il contribuente, di cui può avvalersi oppure no.

    L’utilizzo di tale facoltà passa attraverso la trasmissione telematica, con modalità o tramite intermediario, del modello IPEA, acronimo di Istanza di scomputo in diminuzione delle perdite dai maggiori imponibili derivanti dall’attività di accertamento.

    In origine tale modello veniva trasmesso via PEC, procedura ormai superata dal 2016.

    Il modello IPEA

    L’esercizio della facoltà di utilizzo delle perdite fiscali pregresse a scomputo dei maggiori redditi imponibili accertati in sede di contenzioso, da parte del contribuente, richiede la trasmissione telematica, con modalità diretta o tramite intermediario, del modello IPEA, da effettuarsi, come disposto dal comma 4 dell’articolo42 del DPR 600/1973, “entro il termine di proposizione del ricorso”.

    La compilazione del modello non presenta particolari difficoltà: esso, oltre al frontespizio, presenta il solo quadro US, su cui andranno indicati maggiori dettagli della richiesta.

    Per quanto riguarda il frontespizio, oltre ai canonici dati richiesti per identificare il contribuente, va evidenziata la presenza di una sezione in cui dovranno essere indicarti i riferimenti dell’accertamento (numero, data e tipo di atto) per il quale si chiede l’applicazione delle perdite fiscali pregresse.

    Il quadro US è invece composto da quattro sezioni:

    • sezione I “Periodo d’imposta e istanza rimborso da Irap”: andrà indicato il periodo di imposta oggetto di verifica;
    • sezione II “Situazione perdite pregresse”: andranno indicate le perdite pregresse esistenti al termine del periodo di imposta, con separata indicazione tra perdite utilizzabili in misura limitata e quelle utilizzabili in misura piena;
    • sezione III “Perdite non disponibili”: riguardo le perdite pregresse esistenti alla fine del periodo d’imposta oggetto di accertamento, quelle indicate nella sezione II, andranno adesso indicate quali perdite non sono più disponibili nel momento in cui il contribuente invia il modello, distinguendo le perdite utilizzate nel periodi d’imposta successivi (rigo US3) e le perdite rettificate in diminuzione o scomputate d’ufficio in seguito ad accertamento (rigo US4);
    • sezione IV “Perdite disponibili di cui si chiede l’utilizzo in diminuzione dai maggiori imponibili”: in questa sezione andranno prima indicate le perdite pregresse effettivamente disponibili, che possono essere utilizzate dal contribuente a scomputo del maggio reddito accertato (rigo US5) e, poi, le perdite per le quali si chiede l’utilizzo (rigo US6).

    Si precisa, infine, che, in seguito alla presentazione del modello IPEA, l’utilizzo di una parte delle perdite pregresse disponibili dovrà essere indicato anche nell’apposito rigo della dichiarazione annuale dei redditi.

    In caso di società che aderisce al consolidato nazionale, il modello da utilizzare per il medesimo fine sarà il modello IPEC, similare al modello IPEA nell’impostazione, di poco più articolata.

  • Contenzioso Tributario

    Autotutela sostitutiva: il problema delle spese processuali

    La sentenza numero 30051 della Corte di Cassazione, pubblicata il 21 novembre 2024, ha legittimato la cosiddetta autotutela sostitutiva, peggiorativa per il contribuente; la quale consiste nella facoltà, concessa l’amministrazione finanziaria, di annullare un atto di accertamento, anche in sede processuale, e di poterne emettere uno nuovo, basato su una diversa valutazione dei fatti contestati nel primo atto, anche con una pretesa maggiore.

    Per un approfondimento dell’argomento è possibile leggere l’articolo “Legittima l’autotutela sostitutiva peggiorativa per il contribuente”.

    Che una facoltà di contestazione così strutturata costituisca un potere coercitivo dell’amministrazione finanziaria, nei confronti del contribuente, appare evidente; e la situazione si aggrava se si prendono in considerazione anche le spese processuali.

    Il problema delle spese processuali

    Trasportando sul piano processuale la facoltà di autotutela sostitutiva, concessa all’amministrazione finanziaria, ciò che può succedere è che, nel mezzo di una causa, l’ufficio annulli l’atto, rivaluti la pretesa originaria ed emetta un nuovo atto con una pretesa anche maggiore.

    Ciò è possibile perché l’esercizio di tale facoltà è concessa all’amministrazione finanziaria anche in sede processuale, e questo può comportare delle conseguenze per il contribuente.

    Infatti, per effetti dell’annullamento dell’atto, viene meno la materia del contendere, e, in conseguenza di ciò, il processo si estingue, come stabilito dall’articolo 46 del Decreto Legislativo 546/1992; in questa situazione, in cui il processo si estingue senza vincitori né vinti, in base all’articolo 15 del medesimo Decreto Legislativo 546/1992, si applica la compensazione delle spese.

    Poi, con l’emissione del nuovo atto di contestazione, il contribuente si trova nella situazione di dover sostenere nuovamente le spese processuali, dopo aver dovuto sostenere quelle per il primo processo, finito senza risultato per motivi non imputabili a questi.

    A tutti gli effetti, in sede processuale, la facoltà di autotutela peggiorativa potrebbe configurarsi come un jolly concesso all’amministrazione finanziaria per contestare ex novo una determinata pretesa, senza neanche dover sostenere le spese processuali.

    Per il contribuente, che si potrebbe ritrovare a dover sostenere i costi di più processi, tale situazione rappresenterebbe in un notevole aggravio. Già oggi molti contribuenti preferiscono non contestare pretese erariali che non condividono, per non dover sostenere l’onerosità del procedimento; se consideriamo che, in conseguenza dell’autotutela sostitutiva, tali costi potrebbero ulteriormente lievitare, va da sé che ciò costituisce una compressione del diritto di difesa del contribuente per eccessiva onerosità della procedura.