• Contenzioso Tributario

    Contenzioso tributario: i dati MEF lo danno in calo

    Il MEF, in data 20 dicembre, ha pubblicato i dati sul contenzioso tributario del trimestre luglio-settembre 2023.

    Dal dettaglio, si denota un netto calo del processo tributario, e in particolare, il rapporto del MEF evidenzia che il terzo trimestre del 2023 registra, rispetto allo stesso periodo del 2022, una diminuzione del 23,9% dei nuovi ricorsi mentre, nel secondo grado, il raffronto rileva una diminuzione del 17% degli appelli depositati.
    Inoltre viene registrato che si consolida l’utilizzo delle funzionalità per la redazione digitale delle sentenze, che si attesta al 92,4% dei provvedimenti depositati, con un tempo medio per il deposito pari a 59 giorni, notevolmente inferiore rispetto al tempo medio dei depositi analogici che è pari a 136 giorni.

    Contenzioso tributario: il MEF pubblica i dati del III trim 2023

    Secondo il documento delle Finanze il numero dei ricorsi presentati nel trimestre in esame risulta pari a 24.327, registrando una diminuzione del 23,89% (-7.637 ricorsi) rispetto all’analogo trimestre del 2022 e un marcato aumento del 50,20% (+8.131 ricorsi) rispetto al dato riscontrato nel secondo trimestre del 2021. 

    Il 40,60% dei nuovi ricorsi riguarda atti impositivi emessi dall’AE-Riscossione, seguono con il 30,44% i ricorsi che coinvolgono gli Enti Territoriali e con il 28,70% i ricorsi avviati contro l’Agenzia delle Entrate.

    Il confronto con il terzo trimestre del 2022 mostra un forte decremento del nuovo contenzioso verso l’AE-Riscossione (-33,86%) e gli Enti Territoriali (-28,05%), meno marcata la riduzione registrata verso gli Altri Enti (-13,45%), l’Agenzia delle Entrate (- 12,63%) e l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli (-10,35%).

    Nonostante la contrazione del numero dei contenziosi, passati da 31.964 a 24.327, il valore complessivo delle cause avviate nel terzo trimestre del 2023 aumenta dell’8,97%, passando da 2.541,05 milioni (luglio-settembre 2022) a 2.769,09 milioni. 

    Il valore medio dei ricorsi pervenuti è pari a 113.827,82 euro, circa il 43% in più del valore registrato nel terzo trimestre 2022 (79.497,27 euro).

    In particolare:

    • il 52,55% dei ricorsi pervenuti (12.783 ricorsi) è di valore inferiore/uguale a 3.000 euro, cui corrisponde un valore complessivo pari a 10,69 milioni di euro. Rispetto al medesimo trimestre dell’anno precedente, i ricorsi riferibili a questo scaglione diminuiscono in termini assoluti, in valore economico e nell’incidenza percentuale (anno 2022: 17.452 ricorsi, con incidenza sul totale pari al 54,60% e valore complessivo di 14,69 mln di euro); 
    • il 59,09% dei ricorsi pervenuti (14.375 ricorsi) è di valore inferiore/uguale a 5.000 euro, cui corrisponde un valore complessivo pari a 16,90 milioni di euro. Rispetto al medesimo trimestre dell’anno precedente, i ricorsi riferibili a questo scaglione diminuiscono in termini assoluti, in valore economico e nell’incidenza percentuale (anno 2022: 19.545 ricorsi, con incidenza sul totale pari al 61,15% e valore complessivo di 22,95 mln di euro); 
    • l’83,87% dei ricorsi pervenuti (20.404 ricorsi) è di valore inferiore/uguale a 50.000 euro, cui corrisponde un valore complessivo pari a 126,60 mln. Rispetto al terzo trimestre 2022, il numero delle controversie relative allo scaglione diminuisce così come il loro valore economico; mentre restano quasi invariati l’incidenza percentuale (anno 2022: 26.841 ricorsi con incidenza sul totale pari all’83,97%) e il valore complessivo (157,53 mln di euro); 
    • il 14,61% delle nuove controversie (3.553 ricorsi) è di valore superiore a 50.000 euro, cui corrisponde un valore pari a 2.642,49 mln. Il raffronto con il dato tendenziale mostra che i ricorsi riferibili a questo scaglione diminuiscono in termini assoluti ma aumentano come incidenza percentuale e nel valore complessivo (anno 2022: 4.492 ricorsi con una incidenza sul totale pari al 14,05% e valore complessivo di 2.383,52 mln di euro); 
    • l’1,44% del totale dei ricorsi pervenuti (350 ricorsi) rientra nella fascia economica superiore ad un milione di euro e genera il 72,60% del valore complessivo dei ricorsi presentati nel trimestre in esame, che ammonta a 2.010,24 mln di euro. Rispetto al medesimo trimestre 2022, il volume di tali ricorsi aumenta, così come il loro valore complessivo e l’incidenza percentuale (anno 2022: 322 ricorsi per una incidenza sul totale pari all’1,01%, con un valore di 1.587,13 mln di euro).
    • l’1,52% è di valore indeterminabile (370 ricorsi). Rispetto allo stesso trimestre del 2022 il numero di tali ricorsi diminuisce sia in termini assoluti che percentuali (anno 2022: 631 ricorsi con una incidenza sul totale pari al 1,97%).
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    Gli interessi si prescrivono in cinque anni in ogni caso

    L’articolo 2948 del Codice civile al numero 4 prescrive che gli interessi si prescrivono in cinque anni

    Secondo consolidata giurisprudenza, la norma assume rigore generale, prescindendo dalla natura dell’obbligazione principale e dalla tipologia di interessi applicati.

    È di questo che tratta la sentenza numero 13781/2023 della Corte di Cassazione, che risponde a una particolare situazione, quella in cui l’Agenzia delle Entrate “è ben conscia dell’esistenza di questo prevalente indirizzo giurisprudenziale ma ne chiede la rivisitazione”.

    L’idea non rappresenta una novità assoluta, è facile il paragone con la disciplina speciale di permanenza in vita delle società estinte, valida ai soli fini fiscali; così, in modo similare, adesso in relazione agli interessi dovuti dal contribuente, viene avanzata l’ipotesi “una disciplina speciale della prescrizione in materia tributaria, sganciata dalla disciplina ordinaria”, che preveda una:

    • differenziazione del regime prescrizionale in ragione della fonte degli interessi”;
    • omologazione della disciplina della prescrizione degli interessi a quella del capitale”;

    Fondamentalmente viene ipotizzato che la prescrizione degli interessi derivanti da una obbligazione tributaria possa dipendere dalla specifica tipologia di interessi maturati e dal termine prescrizionale previsto per l’obbligazione tributaria da cui derivano.

    Tuttavia, è opinione della Corte di Cassazione che le argomentazioni dell’Agenzia delle Entrate “non siano convincenti, risultando estranee alla stessa disciplina di diritto comune, da cui conviene prendere le mosse”; per cui tutte le tipologie di interessi, anche quelle legate ad una obbligazione tributaria, si prescrivono in cinque anni, in rispetto delle previsioni del Codice civile.

    Ciò in quanto il punto 4 dell’articolo 2948 del Codice civile è esso stesso una norma speciale, che non fa differenziazioni tra le diverse tipologie di interessi, e con la quale il Legislatore ha voluto espressamente svincolare la prescrizione di una obbligazione accessoria da quella dell’obbligazione principale, rappresentata dalla quota capitale, che, di norma, gode di una prescrizione più lunga.

    Infatti, anche se è vero che l’obbligazione accessoria, rappresentata dagli interessi, sorge insieme all’obbligazione principale e non matura più nel momento in cui la seconda è estinta, è anche vero che, nel momento in cui la quota interessi è maturata, ai fini della prescrizione, assume vita autonoma rispetto alla quota capitale.

    Così, per tutti questi motivi, non può essere accettata la possibilità di legare la prescrizione della quota interessi alla prescrizione della quota capitale, neanche nel contesto di un debito tributario.

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    Contenzioso tributario 2024: l’udienza a distanza

    Il Governo ha approvato, in via preliminare, il Decreto Legislativo sulla riforma del Contenzioso tributario in attuazione della Delega Fiscale. Va ricordato che il testo in bozza ora prosegue il suo iter per l'approvazione definitiva.

    Qualora l'attuale versione venisse confermata, si evidenzia che al Dlgs n 546/92 verrebbe introdotto l'art 34 ter relativo all'udienza a distanza, vediamo cosa contiene.

    Contenzioso tributario 2024: l'udienza a distanza

    Con l'art. 34-ter rubricato Udienza a distanza della bozza di Dlgs approvato dal Governo in via preliminare il 16 novembre si prevede quanto segue.
    I contribuenti e i loro difensori, gli enti impositori e i soggetti della riscossione, i giudici e il personale amministrativo
    delle Corti di giustizia tributaria di primo e secondo grado, possono partecipare alle udienze di cui agli articoli 33 e 34 da remoto. 

    La discussione da remoto è chiesta nel ricorso, nel primo atto difensivo o in apposita istanza notificata alle altre parti costituite entro il termine di cui all’articolo 32, comma 2, ed è depositata in segreteria unitamente alla prova della notificazione. 

    Nei casi di trattazione delle cause da remoto la segreteria comunica, almeno tre giorni prima della udienza, l’avviso dell’ora e delle modalità di collegamento. 

    Nel verbale di udienza viene dato atto delle modalità con cui si accerta l’identità dei partecipanti e della loro libera volontà di parteciparvi, anche ai fini della disciplina sulla protezione dei dati personali. 

    I verbali e le decisioni deliberate all’esito dell’udienza o della camera di consiglio si considerano, rispettivamente, formati ed assunte nel comune in cui ha sede l’ufficio giudiziario presso il quale è stato iscritto il ricorso trattato.

    Il luogo dal quale si collegano i giudici, i difensori, le parti che si difendono personalmente e il personale amministrativo è considerato aula di udienza a tutti gli effetti di legge.

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    Contenzioso tributario: le novità in arrivo dal 2024

    Il Governo il 16 novembre ha approvato, tra le altre misure, due Decreti legislativi di prima attuazione della Riforma Fiscale.

    Si tratta di due provvedimenti approvati in via preliminare che ora passano al vaglio delle commissioni competenti per proseguire l'iter di approvazione definitiva.

    Vediamo le novità della riforma del contenzioso tributario previste secondo l'attuale testo di decreto già dal 1 gennaio 2024.

    Riforma Fiscale: sintesi delle novità per il Contenzioso tributario

    Nel dettaglio, il Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze Giancarlo Giorgetti, ha approvato, in esame preliminare, il decreto legislativo con Disposizioni in materia di contenzioso tributario, ai sensi dell’articolo 19 della legge 9 agosto 2023, n. 111.

    Come specificato dal comunicato stampa dell'esecutivo il decreto dà attuazione ai principi e criteri direttivi per la revisione della disciplina e l’organizzazione del contenzioso tributario e, in particolare, attua:

    • il coordinamento tra gli istituti a finalità deflativa operanti nella fase antecedente la costituzione in giudizio;
    • l’ampliamento e il potenziamento dell’informatizzazione della giustizia tributaria tramite la semplificazione della normativa processuale funzionale alla completa digitalizzazione del processo tributario, l’obbligo dell’utilizzo di modelli predefiniti per la redazione degli atti processuali, dei verbali e dei provvedimenti giurisdizionali, la disciplina delle conseguenze processuali derivanti dalla violazione degli obblighi di utilizzo delle modalità telematiche, la previsione che la discussione da remoto possa essere chiesta anche da una sola delle parti costituite nel processo, con istanza da notificare alle altre parti, fermo restando il diritto di queste ultime di partecipare in presenza;
    • il rafforzamento del divieto di produrre nuovi documenti nei gradi processuali successivi al primo;
    • la previsione della pubblicazione e della successiva comunicazione alle parti del dispositivo dei provvedimenti giurisdizionali entro termini ristretti;
    • l’accelerazione dello svolgimento della fase cautelare anche nei gradi di giudizio successivi al primo;
    • le previsioni sull’impugnabilità dell’ordinanza che accoglie o respinge l’istanza di sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato.

    Contenzioso tributario: impugnanilità dell'ordinanza di sospensione atto

    Tra le principali novità che il Dlgs sul Contenzioso Tributario ambisce ad introdurre, vi è quella dell'impugnabilità dell’ordinanza che accoglie o respinge l’istanza di sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato.

    Se la norma venisse confermata, si amplierebbe la sfera d’azione difensiva nei processi contro il Fisco. 

    In particolare, in attuazione del criterio direttivo di cui all’articolo 19, comma 1, lettera g) concernente l'impugnabilità dell'ordinanza che accoglie o respinge l'istanza di sospensione dell'esecuzione dell'atto impugnato, con la novità si prevede che a pronunciarsi sulla sospensione dell’atto impugnato sia, a seconda dei casi, la corte di giustizia di primo o secondo grado.

    Inoltre, in aderenza alle disposizioni sul giudice monocratico contenute nella legge n. 130 del 2022, viene inserita, al comma 3, l’espressa previsione del giudice monocratico.

    Il novellato comma 4 disciplina il regime di impugnazione dell’ordinanza cautelare; in particolare la norma prevede che le pronunce cautelari del giudice monocratico siano reclamabili davanti al collegio della Corte di giustizia di primo grado, mentre le ordinanze collegiali della corte di primo grado siano impugnabili davanti alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado.

    Si prevede l’immediata comunicazione alle parti dell’ordinanza cautelare e l’impugnabilità della stessa, entro il termine perentorio di quindici giorni dalla sua comunicazione, e viene, inoltre, espressamente prevista la non impugnabilità dell’ordinanza che decide sul reclamo e sull’ordinanza cautelare emessa dalla Corte di giustizia tributaria di secondo grado.

    In sintesi, secondo il Dlgs l’ordinanza del giudice di primo grado che non accetta la sospensione degli atti:

    • diventa impugnabile davanti alla Corte di giustizia di secondo grado entro il termine perentorio di quindici giorni dalla sua comunicazione da parte della segreteria,
    • l’ordinanza cautelare varata dal nuovo giudice monocratico istituito nel 2022 per pronunciarsi sulle liti del valore fino a 5mila euro sarà impugnabile entro 15 giorni  "solo con reclamo innanzi alla medesima Corte di giustizia di primo grado in composizione collegiale, da notificare alle altre parti costituite" 
    • non è impugnabile l’ordinanza della Corte di secondo grado.
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    Società estinta: la legittimazione processuale del liquidatore

    Una delle conseguenze dell’eccesso normativo è la possibilità di trovare delle norme che si prendono un po’ a spallate tra loro, essendo difficile definire quando inizia l’una e finisce l’altra.

    In ambito fiscale questo succede non di rado, anche perché la disciplina tributaria si trova spesso a interagire con quella civilistica che, trattando spesso le medesime fattispecie, le osserva con occhio diverso e cerca di tutelare interessi collettivi diversi.

    È quello che accade, ad esempio, alla legittimazione processuale del liquidatore dopo l’estinzione della società di capitali.

    Il lettore ricorderà che, per effetti dell’articolo 2495 del Codice civile, nel momento in cui una società è cancellata dal registro delle imprese smette di esistere, ed avviene un fenomeno successorio nei confronti dei soci che ne ereditano crediti e debiti (nei limiti di quanto percepito in sede di liquidazione).

    La conseguenza di ciò è che, dopo l’estinzione della società, il liquidatore terminerà il suo incarico, in quanto non può esistere il legale rappresentante di un soggetto non più esistente, per cui la capacità processuale, per eventuali crediti o debiti residui, spetterà ai soci.

    La normativa fiscale, che tutela interessi collettivi diversi da quelli perseguiti dal Codice civile, per tutelare il legittimo interesse erariale alla riscossione fiscale, ha introdotto l’articolo 28 del Decreto Legislativo 175/2014, il quale prevede che “ai soli fini della validità e dell'efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi, l'estinzione della società di cui all'articolo 2495 del Codice civile ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione del Registro delle imprese”.

    In conseguenza di questa norma, quindi, per cinque dopo l’estinzione della società, il fisco può contestare e notificare a questa le sue pretese fiscali senza dover rintracciare i soci.

    Quello che non è stato chiarito dal legislatore è chi, in questa situazione, ha la capacità processuale per eventuali contenziosi con il fisco, dato che, in conseguenza dell’estinzione della società, il liquidatore decade dal suo mandato e non è più il rappresentante legale.

    Il potere di rappresentanza processuale spetta all’ultimo rappresentante legale in carica, di solito il liquidatore, che conserva la legittimazione per i cinque anni successivi all’estinzione della società; dopo tale periodo la legittimazione processuale passa ai soci, ovviamente ai soli fini del contenzioso in tema di imposte, contributi e relative sanzioni o interessi. Quindi, durante tale periodo quinquennale, i soci non possono agire nei confronti del fisco né dovrebbero essere da questo chiamati in causa.

    A stabilire questo principio è la Corte di Cassazione, prima con la deliberazione 36892/2022, adesso ribadita dall’ordinanza 22070 del 24 luglio 2023, con le quali si puntualizza il seguente principio: “in tema di cancellazione della società dal registro delle imprese, il differimento quinquennale degli effetti dell'estinzione, previsto dall'articolo 28, comma 4, del Decreto Legislativo numero 175 del 2014 -disposizione di natura sostanziale, operante solo nei confronti dell'amministrazione finanziaria e degli altri enti creditori o di riscossione indicati, con riguardo a tributi o contributi – implica che il liquidatore conservi tutti i poteri di rappresentanza della società sul piano sostanziale e processuale, con la conseguenza che egli è legittimato non soltanto a ricevere le notificazioni degli atti impositivi, ma anche ad opporsi ad essi, conferendo mandato alle liti, mentre sono privi di legittimazione i soci, poiché gli effetti previsti dall'articolo 2495, comma 2, del Codice civile sono posticipati anche ai fini dell'efficacia e validità degli atti del contenzioso”.

     

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    Compensi Giudici tributari: gli importi in vigore dal 1 gennaio

    Viene pubblicato in GU n 109 dell'11 maggio il decreto MEF del 24 marzo con Definizione dei compensi fissi e aggiuntivi spettanti ai giudici tributari delle Corti di giustizia tributaria presenti nel ruolo unico nazionale. 

    Compenso fisso giudice tributario: gli importi

    In particolare, si prevede che il compenso fisso mensile spettante a ciascun componente  della Corte di  giustizia  tributaria di  primo e  di secondo grado è determinato nella seguente misura:

    • a) euro 1.138,50 per il Presidente;
    • b) euro 1.018,90 per il Presidente di sezione;
    • c) euro 959,10 per il vice Presidente di sezione;
    • d) euro 899,30 per il giudice.

    Il compenso spettante al Presidente di Corte di giustizia tributaria non è cumulabile con  quello spettante al Presidente di sezione. 

    Gli importi si assumono al  lordo delle ritenute di legge.

    Compenso aggiuntivo giudice tributario: gli importi

    Il compenso aggiuntivo per ogni ricorso definito è stabilito in euro 100,00, oltre la maggiorazione di euro 1,50 da corrispondere,  a titolo di rimborso forfetario  per  le  spese  sostenute,  a  ciascun giudice tributario componente di Corte di  giustizia  tributaria di primo e di secondo grado residente in  comune  della  stessa  regione diverso da quello in cui ha  sede  la  medesima Corte di  giustizia tributaria.

    Tale compenso aggiuntivo di euro 100,00 viene così ripartito:

    a) euro 4,50 per il Presidente;

    b) euro 3,50 per il Presidente di sezione;

    c) euro 2,50 per il vice Presidente di sezione;

    d) euro 11,50 per l'estensore;

    e) euro 26,00 per ciascuno dei  tre componenti  del  collegio giudicante.

    Nei casi di  definizione del  ricorso  con provvedimento presidenziale non impugnato mediante reclamo, il compenso aggiuntivo spetta al solo giudice tributario  in qualità di estensore del provvedimento ed è stabilito nella  misura  di  euro 12,50, oltre la maggiorazione di euro 1,50 da corrispondere, a titolo di rimborso forfetario per le spese sostenute, al giudice  tributario residente in comune della stessa regione diverso da quello in cui  ha sede la Corte di giustizia tributaria.

    Gli importi si  assumono al  lordo delle ritenute di legge.

    Compenso aggiuntivo giudice tributario monocratico: gli importi

    Il compenso aggiuntivo per ogni ricorso definito ai  sensi dell'art. 44-bis del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 545, è stabilito in euro 100,00 ed è così ripartito:

    a) euro 4,50 per il Presidente

    b) euro 3,50 per il Presidente di sezione;

    c) euro 2,50 per il vice Presidente di sezione;

    d) euro 89,50 per il giudice monocratico.
    Il compenso aggiuntivo per ogni ricorso definito in composizione monocratica ai sensi  dell'art.  4-bis  del  decreto  legislativo  31 dicembre 1992, n. 546, è stabilito  in  euro  100,00  ed  è così ripartito:

    a) euro 4,50 per il Presidente;

    b) euro 3,50 per il Presidente di sezione;

    c) euro 92,00 per il giudice monocratico.

    Il compenso  aggiuntivo per ogni ricorso definito ai  sensi dell'art. 70, comma 10-bis, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, è stabilito in euro 100,00 ed è così  ripartito:

    a) euro 4,50 per il Presidente;

    b) euro 3,50 per il Presidente di sezione;

    c) euro 2,50 per il vice Presidente di sezione;

    d) euro 89,50 per il giudice monocratico.
    Gli importi si assumono al lordo  delle ritenute di legge.

    Compensi giudice tributario: decorrenza

    Il presente decreto si applica ai compensi dei giudici tributari presenti nel ruolo unico nazionale di cui all'art. 4,  comma  39-bis, della legge 12 novembre 2011, n. 183, di seguito elencati:

    a) compensi fissi spettanti a decorrere dal  1° gennaio 2023;

    b) compensi aggiuntivi di cui agli articoli 2 e 3, commi 1 e  3, in relazione ai ricorsi definiti a decorrere dal 1° gennaio 2023;

    c) compensi aggiuntivi di cui all'art. 3, comma 2, in relazione alle definizioni dei  ricorsi  fino  a  3.000,00  euro  notificati  a decorrere dal 1° gennaio 2023;

    d) compensi aggiuntivi di cui all'art. 3, comma 2, in  relazione alle definizioni dei  ricorsi  fino a  5.000,00  euro  notificati  a decorrere dal 1° luglio 2023. Leggi qui il dettaglio nel Decreto MEF del 24 marzo 2023

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    Processo tributario telematico: stop all’obbligo di firma digitale sugli allegati

    Pubblicato in GU n 102 del 3 maggio il Decreto 21 aprile 2023 del MEF  con Modifiche alle specifiche tecniche previste dall'articolo 3, comma 3, del decreto 23 dicembre 2013, n. 163, concernente il «Regolamento recante la disciplina dell'uso di strumenti informatici e telematici nel processo tributario in attuazione delle disposizioni contenute nell'articolo 39, comma 8, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito dalla legge 15 luglio 2011 n 111.

    Ricordiamo che già con un avviso pubblicato sul Portale della Giustizia Telematica, il MEF informava del fatto che, con il decreto di cui si tratta sono state apportate modifiche al decreto ministeriale 4 agosto 2015, che individua le regole tecniche del processo tributario telematico previste dall'articolo 3, comma 3, del regolamento 23 dicembre 2013, n. 163. 

    Inoltre, si riepiloga che, dal 1° luglio 2019, sussiste l'obbligo di notificare e depositare gli atti processuali, i documenti ed i provvedimenti giurisdizionali esclusivamente con modalità telematica, mentre per i soggetti che stanno in giudizio senza assistenza tecnica (entro un valore complessivo della controversia inferiore a Euro 3.000) l'utilizzo del PTT è facoltativo.

    Nel dettaglio, il comunicato MEF ha specificato che l’aggiornamento delle regole tecniche per il deposito telematico degli atti/documenti riguarda:

    • l’eliminazione dell’obbligo della firma digitale sugli allegati al momento del deposito; la firma andrà comunque apposta sul file dell’atto processuale principale da depositare ovvero sul ricorso o sull’atto di costituzione in giudizio e sulla memoria illustrativa,
    • la previsione nel sistema di controlli bloccanti di integrità, dimensioni e formati sui file durante la fase del loro caricamento;
    • la trasmissione di atti processuali, con sottoscrizioni digitali plurime, a condizione che almeno una di esse risulti valida;
    • l’accettazione a sistema dei file nel formato EML (Electronic mail);
    • la previsione della validità della firma PADES, già consentita dal sistema insieme alla firma CADES (Cfr. circolare 1/DF del 4 luglio 2019).

    Il PTT consentirà, inoltre, di depositare esclusivamente allegati anche non firmati digitalmente, mediante una nota di deposito documenti generata dal sistema.

    Attenzione al fatto che, le nuove disposizioni entrano in vigore il 15 maggio 2023.

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    Definizione agevolata liti in Cassazione: pronto il modello per richiederla

    Con Provvedimento del 16 settembre le Entrate definiscono le modalità di attuazione dell’articolo 5 della Legge 31 agosto 2022, n. 130, concernenti la definizione agevolata dei giudizi tributari pendenti innanzi alla Corte di cassazione e viene approvato, unitamente alle relative istruzioni, l’allegato modello di domanda: SCARICA QUI MODELLO E ISTRUZIONI  

    L’articolo 5 consente ai contribuenti che non siano stati integralmente soccombenti nei gradi di merito di definire in via agevolata le liti fiscali pendenti innanzi alla Corte di cassazione, attraverso il pagamento di determinati importi, correlati al valore della controversia.

    Attenzione al fatto che in data 23 settembre le Entrate hanno pubblicato la risoluzione n 50 con i codici tributo per il pagamento di suddetti importi. In proposito si legga: Somme per definizione agevolata liti in Cassazione: i codici tributo

    Definizione agevolata liti in Cassazione: presenta la domanda

    La domanda di definizione deve essere presentata:

    • dal soggetto che ha proposto l’atto introduttivo del giudizio 
    • o da chi vi è subentrato o ne ha la legittimazione,

    il quale, ai sensi dell’articolo 5 della legge 31 agosto 2022, n. 130, intende definire i giudizi tributari pendenti innanzi alla Corte di cassazione ai sensi dell’articolo 62 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546. 

    Sono definibili le controversie pendenti innanzi alla Corte di cassazione per le quali l’Agenzia delle entrate risulti: 

    a) integralmente soccombente in tutti i precedenti gradi di giudizio e il valore delle quali, determinato ai sensi dell'articolo 16, comma 3, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, sia non superiore a 100.000 euro, con il pagamento di un importo pari al 5 per cento del valore della controversia, determinato ai sensi del medesimo articolo 16, comma 3; 

    b) soccombente, in tutto o in parte, in uno dei gradi di merito e il valore delle quali, determinato ai sensi dell'articolo 16, comma 3, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, sia non superiore a 50.000 euro, con il pagamento di un importo pari al 20 per cento del valore della controversia, determinato ai sensi del medesimo articolo 16, comma 3, della legge 27 dicembre 2002, n. 289. 

    La soccombenza va valutata in relazione al singolo atto impugnato. 

    In caso di totale soccombenza del contribuente in entrambi i gradi di giudizio non è prevista la possibilità di definizione. 

    Per valore della controversia, da assumere a base del calcolo per la definizione, si intende l’importo dell’imposta che ha formato oggetto di contestazione in primo grado, al netto degli interessi, delle indennità di mora e delle eventuali sanzioni collegate al tributo, anche se irrogate con separato provvedimento; per le controversie relative esclusivamente a sanzioni non collegate al tributo, il valore della lite è determinato dall’importo delle stesse. 

    Il valore della lite è determinato con riferimento a ciascun atto introduttivo del giudizio, indipendentemente dai tributi in esso indicati. 

    Ai sensi dell’articolo 5, comma 4, della legge 31 agosto 2022, n. 130, per controversie tributarie pendenti si intendono quelle per le quali il ricorso per cassazione è stato notificato alla controparte entro la data di entrata in vigore della legge ossia il 16 settembre 2022, purché, alla data della presentazione della domanda, non sia intervenuta una sentenza definitiva. 

    Gli effetti della definizione perfezionata prevalgono su quelli delle eventuali pronunce giurisdizionali non passate in giudicato prima dell’entrata in vigore del citato articolo 5 della legge 31 agosto 2022, n. 130.

    Sono escluse dalla definizione le controversie concernenti anche solo in parte: 

    a) le risorse proprie tradizionali previste dall’articolo 2, paragrafo 1, lettera a), della decisione (UE, Euratom) 2020/2053 del Consiglio, del 14 dicembre 2020, e l'imposta sul valore aggiunto riscossa all'importazione; 

    b) le somme dovute a titolo di recupero di aiuti di Stato ai sensi dell'articolo 16 del regolamento (UE) 2015/1589 del Consiglio, del 13 luglio 2015.

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  • Contenzioso Tributario

    L’impugnabilità dell’estratto di ruolo quando la cartella non è stata notificata

    Ormai chiunque è a conoscenza del fatto che l’articolo 3 del DL 146/2021, aggiungendo un comma all’articolo 12 del DPR 602/73, ha disposto:

    • che l’estratto di ruolo non è impugnabile;
    • che il ruolo e la cartella di pagamento, anche invalidamente notificata, sono impugnabili solo in talune specifiche situazioni e solo se il contribuente è in grado di dimostrare che l’iscrizione possa arrecargli pregiudizio.

    La novità normativa, nata dalle mani di un Legislatore con il problema di dover recuperare un notevole contenzioso tributario arretrato, presta il fianco a rilevanti perplessità sulla legittimità della prevista contrazione di alcuni dei diritti dei contribuenti.

    Perplessità che sono state sollevate anche dalla Corte di Cassazione nella nota ordinanza interlocutoria che rimanda alle Sezioni unite la valutazione dell’applicabilità retroattiva della norma: per un approfondimento si può leggere l’articolo La retroattività dell’impugnabilità dell’estratto di ruolo.

    Con il consolidarsi della giurisprudenza sul tema, le ipotesi di attriti costituzionali diventano sempre più rilevanti. 

    La recente ordinanza della Corte di Cassazione numero 6837, pubblicata il 2 marzo 2022, aggiunge un tassello al dibattito prendendo in esame il caso dell’attuale impugnabilità dell’estratto di ruolo nel caso in cui la cartella non sia stata precedentemente notificata.

    Ricordando brevemente che l’estratto di ruolo non è mai stato impugnabile in quanto tale, ma lo era come documento telematico attraverso il quale il contribuente viene a conoscenza dell’esistenza di una cartella o un ruolo non correttamente notificato o non notificato affatto, la Corte, nella situazione in esame, asserisce la contestabilità del documento “in quanto una lettura costituzionalmente orientata impone di ritenere che l'impugnabilità dell'atto precedente non notificato unitamente all'atto successivo notificato […] non costituisca l'unica possibilità di far valere l'invalidità della notifica di un atto del quale il contribuente sia comunque venuto legittimamente a conoscenza e quindi non escluda la possibilità di far valere l'invalidità stessa anche prima, giacché l'esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale non può essere compresso, ritardato, reso più difficile o gravoso, ove non ricorra la stringente necessità di garantire diritti o interessi di pari rilievo, rispetto ai quali si ponga un concreto problema di reciproca limitazione”.

    L’ordinanza è importante perché pone il punto su due questioni molto importanti:

    1. che il diritto alla difesa del contribuente rappresenta un diritto costituzionalmente tutelato;
    2. che oggi, in attesa delle Sezioni unite sull’eventuale applicazione retroattiva della norma che vieta la contestazione dell’estratto di ruolo, questo, in assenza della notifica della cartella, è ancora legittimamente impugnabile.

    Cercando di osservare alla questione con uno sguardo più ampio, si noterà come, dopo la promulgazione dell’articolo 3 del DL 146/2021, ogni volta che la contestabilità dell’estratto di ruolo arriva in Corte di Cassazione, vengano evidenziate le rilevanze dell’evidente limitazione dei diritti costituzionalmente tutelati, che, direttamente o indirettamente, pongono dubbi sull’effettiva legittimità della novità normativa.

  • Contenzioso Tributario

    Perdite su crediti: deduzione subordinata all’inerenza quantitativa

    Nell’ambito del diritto tributario le questioni non sono sensibili tutte allo stesso modo agli occhi della giurisprudenza.

    Sono due gli argomenti che, più degli altri, sono gettonati dai giudici di legittimità, che ne osservano ogni sfaccettatura: 

    1. i finanziamenti concessi alla Società a responsabilità limitata (con ristretta base societaria) da propri soci 
    2. e i criteri di deducibilità delle perdite su crediti.

    Oggi trattiamo nuovamente la seconda questione, sotto una diversa angolazione. 

    Criteri di deducibilità delle perdite su crediti

    L’ordinanza numero 2229 della Corte di Cassazione, pubblicata il 25 gennaio 2022, offre ai lettori nuovi spunti di riflessione sui criteri di deducibilità e di realizzazione di quegli elementi certi e precisirichiesti dalla normativa sulle perdite su crediti: nello specifico, entra in gioco nella variabile valutativa anche l’inerenza quantitativa.

    L’ordinanza in oggetto prende in esame il caso della cessione pro soluto (con questo termine si intende la cessione definitiva di un credito, con la quale il creditore è liberato da ogni responsabilità in relazione all’eventuale inadempimento da parte del debitore) dei crediti commerciali non ancora onorati da parte dei clienti del cedente.

    Da un punto di vista fiscale l’inquadramento della differenza tra valore nominale del credito ceduto e corrispettivo della cessione (si presume in perdita) rientra nel perimetro dell’articolo 101 del TUIR; una parte della dottrina aveva inteso ricondurre la fattispecie al comma 1, con conseguente rilevazione di una minusvalenza, ma la Corte di Cassazione con l’ordinanza 2229/2022 precisa che la situazione va inquadrata senza ombra di dubbio nel contesto del comma 5, con conseguente rilevazione di una perdita su crediti.

    Come osserva la Corte, la giurisprudenza è ormai abbastanza consolidata nel qualificare una tale perdita come una perdita su crediti ex comma 5; tra l’altro il comma 1 fa un chiaro riferimento ai beni, e con difficoltà si può ricondurre un credito commerciale, iscritto nell’attivo circolante, in tale definizione.

    La conseguenza fiscale del dover fare confluire le perdite da cessione pro soluto dei crediti commerciali tra le perdite su crediti ex comma 5 è che, ai fini della loro deducibilità, queste dovranno risultare da “elementi certi e precisi.

    Escludendo il caso dei crediti di modesto importo per i quali l’esistenza degli elementi certi e precisi si può presumere, in base alle disposizioni e ai limiti previsti dal comma 5-bis del medesimo articolo 101 del TUIR, per gli altri casi, secondo la Corte di Cassazione, ai fini della realizzazione dei richiesti elementi certi e precisi, non è sufficiente la definitività della perdita (che in caso di cessione pro soluto in effetti si può presumere), ma l’imprenditore deve essere in grado di dimostrare l’inerenza della perdita in relazione all’attività dell’impresa.

    Bisogna fare attenzione al fatto che, anche se la disamina riguarda la cessione pro soluto di un credito commerciale, la valutazione dell’inerenza, in considerazione dell’impostazione assunta dalla Corte, dovrebbe investire tutte le situazioni per le quali sono richiesti gli elementi certi e precisi, ad eccezione, appunto (perché nella fattispecie non sono richiesti), del caso in cui il debitore è assoggettato a procedura concorsuale.

    Il fatto che una componente negativa di reddito per essere deducibile debba essere inerente all’attività dell’impresa discende direttamente dall’articolo 109 comma 5 del TUIR, e costituisce un principio fondamentale del diritto tributario

    Tuttavia, occorre precisare che la norma, letteralmente letta, richiede un collegamento di inerenza di tipo qualitativo tra costo e “attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito”.

    Criteri di deducibilità delle perdite su crediti: l'inerenza quantitativa

    Per le perdite su crediti e i relativi elementi certi e precisi richiesti dal comma 5 dell’articolo 101 del TUIR, la Corte di Cassazione non richiede solo una valutazione qualitativa dell’inerenza (che si può dare per assunta da un credito commerciale che deriva dall’attività propria dell’impresa), ma anche una quantitativa, non letteralmente derivante dalla norma di riferimento.

    Secondo la Corte l’inerenza quantitativa di una perdita su crediti si realizza nel momento in cui il corrispettivo della cessione del credito, e, di conseguenza, l’entità della perdita rilevata, siano rappresentativi della “effettiva riduzione di valore reale del credito; in mancanza di questo elemento, la cessione di un credito ad un prezzo che non rispecchia il suo valore effettivo non sottende più un obiettivo produttivo, ma erogatorioin favore del soggetto al quale il credito è ceduto ad un prezzo inferiore rispetto al suo reale valore.

    In questa situazione, quindi, l’operazione assume il carattere di una erogazione liberale e non risponde più al requisito dell’inerenza ex articolo 109 comma 5 del TUIR.

    Una impostazione così strutturata, da un punto di vista teorico, può anche risultare condivisibile; e, per talune situazioni limite, anche concretamente può rappresentare correttamente la realtà. Tuttavia, nella generalità dei casi, questa impostazione si scontra con problema di fondo: si scontra contro l’effettiva difficoltà, da parte del contribuente, di dimostrare l’esistenza dell’inerenza quantitativa, in quanto il concetto si basa su un processo di stima del valore di presunto realizzo.

    L’inserimento della valutazione dell’inerenza quantitativa nella variabile fiscale fa si che, anche quando un credito è definitivamente ceduto, la deducibilità della perdita rilevata, in conseguenza del depennamento dal bilancio del credito ceduto, effettuato in rispetto dei principi contabili, può essere contestata dall’amministrazione finanziaria in base a una diversa stima del valore del credito.

    Si noterà che una impostazione così strutturata si inserisce non senza attrito nel contesto legislativo attuale, che cerca di portare avanti un percorso di riduzione delle occasioni di contenzioso tributario, il quale dall’incertezza del diritto non può che essere alimentato.