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Deducibilità delle consulenze professionali degli amministratori di società
Nel contesto del reddito d’impresa, il compenso corrisposto agli amministratori di società di capitali è regolato dall’articolo 2389 comma 1 del Codice civile, il quale prescrive che “i compensi spettanti ai membri del consiglio di amministrazione e del comitato esecutivo sono stabiliti all’atto della nomina o dall’assemblea”.
La norma ha carattere imperativo e, in conseguenza di ciò, l’esistenza della delibera che determina esplicitamente l’entità del compenso dell’amministratore (in mancanza di previsione statutaria) è essenziale, sia ai fini civili che fiscali.
Infatti, da un punto di vista civilistico, in mancanza della delibera, l’atto di autodeterminazione del compenso, da parte degli amministratori, è nullo; mentre, dal punto di vista fiscale, il compenso, anche se corrisposto, non sarà deducibile per l’impresa.
Unica eccezione il caso in cui il compenso e la sua entità sia espressamente previsto dall’atto costitutivo della società.
In questo contesto normativo si inseriscono le prestazioni di servizi professionali resi dagli amministratori alla società amministrata non in qualità di amministratori ma in qualità di consulenti esterni.
Non è infatti inusuale che gli amministratori prestino servizi di consulenza specialistica o servizi professionali alla società amministrata: la natura di queste prestazioni è estranea ai servizi prestati in qualità di amministratori.
È consuetudine consolidata quella di considerare tali costi, i servizi prestati dagli amministratori come consulenti esterni, come estranei a quanto disposto dall’articolo 2389 comma 1 del Codice civile, in quanto prestazioni per natura estranee all’incarico di amministratore.
Anche la società più prudente usualmente non prevede una delibera assembleare per un costo di questa natura; tutt’al più, per certificare il costo e non offrire il fianco a possibili contestazioni sulla deducibilità fiscale, può prevedere la stipula di uno specifico contratto tra impresa e consulente.
Ma una recente ordinanza della Corte di Cassazione cambia radicalmente l’approccio a questa tipologia di costi.
L’ordinanza 20613/2024 della Corte di Cassazione
L’ordinanza numero 20613 della Corte di Cassazione, datata 24 luglio 2024, prende in esame proprio la deducibilità fiscale dei compensi corrisposti agli amministratori di società di capitali in qualità di professionisti o consulenti esterni; quindi la deducibilità non di costi relativi all’attività di amministratori, bensì di costi per servizi o per consulenza.
La novità, per cui si segnala l’ordinanza 20613/2024, è che la Corte scardina radicalmente il paradigma consolidato dagli usi prima indicato.
Nella situazione esaminata l’Agenzia delle Entrate contestava le somme corrisposte per prestazioni di servizi di consulenza agli amministratori di una società, prestati a fronte di specifici contratti, in quanto tali contratti sarebbero stati simulati: secondo l’agenzia questi documenti servivano a mascherare dei compensi attribuiti agli amministratori, i quali non sarebbero stati deducibili in quanto privi di apposita delibera dell’assemblea.
L’Agenzia delle Entrate, quindi, non contestava l’estraneità dei servizi di consulenza rispetto alle mansioni di amministratore, ma, per il solo caso specifico, contestava una simulazione abusiva da parte della società.
La Corte di Cassazione invece supera questa impostazione e dichiara il seguente principio di diritto: “la disciplina sul compenso degli amministratori di cui agli articoli 2389, comma 1, e 2364, comma 1, numero 3 Codice civile, è dettata anche nell’interesse pubblico al fine del regolare svolgimento dell’attività economica e tali norme sono imperative e vincolanti ai fini dell’articolo 1418, comma 1, Codice civile, non potendo essere derogate attraverso il ricorso a onerosi contratti di consulenza di prestazione intellettuale prestate dagli amministratori nei confronti della società di capitali da loro amministrata, senza le prescritte formalità e nella determinazione dell’assemblea dei soci”.
La Corte quindi, con una interpretazione restrittiva, di chiaro intento antielusivo, dell’articolo 2389 del Codice civile, ritiene che il punto non sia la presunta simulazione dei contratti, ma il fatto che, ai fini della deducibilità dei compensi corrisposti agli amministratori di società di capitali, è necessario che ci sia alla base una quantificazione nello statuto o in una delibera assembleare, senza che vi sia possibilità di aggirare il disposto normativo facendo ricorso a contratti per prestazioni di servizi o di consulenza prestati dagli amministratori alla società amministrata.
Con altre parole, secondo l’interpretazione della Corte di Cassazione, tutti i compensi corrisposti agli amministratori di società sono soggetti alle prescrizioni dell’articolo 2389 comma 1 del Codice civile e non solo quanto corrisposto in relazione al mandato di amministratore.
L’interpretazione di certo è restrittiva, ma forse non è implausibile, se si vuole attribuire alla norma pieno potere antielusivo.
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Attacco hacker: il riscatto pagato è relativamente indeducibile
Ormai da molti anni accade che i server di società e di studi professionali vengano presi in ostaggio e criptati da malware chiamati ransomware, per le cui chiavi di decriptazione viene richiesto, dagli hacker che li hanno creati, un pagamento in bitcoin.
Purtroppo, molte volte, dato l’interesse a mantenere l’integrità dei dati, il pagamento del riscatto può risultare necessario; e il rischio legato a questo tipo di situazione può considerarsi tutt’altro che recondito, al punto che alcune aziende oggi stanziano in bilancio un fondo rischi specifico.
È questa la situazione presa in esame dalla Risposta a interpello numero 149 del 24 gennaio 2023.
La domanda principale, che interessa il diritto tributario, per la situazione in trattazione è se il riscatto pagato possa essere considerato un costo deducibile oppure no.
A qualcuno il dubbio potrebbe sorgere in conseguenza del fatto che l’articolo 14, comma 4-bis, della Legge 537/1993 prescrive che “non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l'azione penale”.
L’Agenzia delle Entrate chiarisce subito che il comportamento tenuto dagli hacker configura il reato di “estorsione previsto dall'articolo 629 del Codice penale”, ma che, come era lecito aspettarsi, il pagamento del riscatto, pur costituendo un elemento costitutivo del reato, “in nessun caso può integrare un fatto punibile per la vittima”.
Con altre parole, per la valutazione della deducibilità del costo rappresentato dal riscatto, “può escludersi […] l'applicazione della disciplina dei costi da reato”.
Le valutazioni da fare, secondo il punto di vista della prassi, sono di diversa natura e incentrate sul principio di inerenza.
Semplificando per brevità, il principio di inerenza richiede che i costi d’impresa, ai fini della loro deducibilità, debbano essere funzionali alla produzione di ricavi; tale capacità funzionale può essere puntuale, cioè legata a uno specifico ricavo, oppure generale, interessando l’impresa nella sua complessità, quale struttura idonea a produrre ricavi.
L’Agenzia delle Entrate puntualizza il fatto che è a carico del contribuente l’onere di dimostrare l’esistenza e l’inerenza di un costo e la sua correlazione con l’attività imprenditoriale; e che, nella situazione in esame, senza ulteriore supporto documentale, non è possibile “dimostrare che l'uscita di denaro relativa all'acquisto dei bitcoin e il successivo trasferimento degli stessi sia strettamente correlato alla remunerazione di un fattore della produzione (le prestazioni che gli hacker si sarebbero impegnati ad eseguire)”.
Quindi, di per sé, senza ulteriore supporto documentale, il costo non è deducibile.
Fondamentalmente viene rilevato un difetto di inerenza, la mancanza di un collegamento funzionale tra il costo sostenuto e un fattore della produzione o l’attività dell’impresa.
Il principio di indeducibilità stabilito non è assoluto, ma relativo, in quanto il contribuente potrebbe dimostrare l’inerenza producendo supporto documentale in favore della sua tesi; non è evidente, però, in che maniera e con quale documentazione si possa dimostrare ciò.
Le conclusioni possono sorprendere, in quanto il pagamento del riscatto, nella situazione esaminata, è un costo sostenuto per il mantenimento dell’integrità dei dati aziendali e del funzionamento dei sistemi informatici, entrambi elementi non secondari per la prosecuzione dell’attività dell’impresa; ma, come spesso accade in relazione all’inerenza, la valutazione può spesso essere influenzata dal punto di osservazione.
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