• Determinazione del Reddito

    Contributi Cassa Forense: dal 5 giugno valida la nuova causale “E107”

    Con Risoluzione n 24 del 24 maggio le entrate istituiscono lA causale contributo “E107” per il versamento, tramite il modello “F24”, dei contributi di spettanza della Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Forense.

    La Risoluzione ricorda che il decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze del 10 gennaio 2014, emanato di concerto con il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, ha stabilito che il sistema dei versamenti unitari e la compensazione previsti dall’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, si applicano, tra gli altri, anche alla Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Forense (di seguito “Cassa Forense”). Con convenzione del 26 novembre 2020 stipulata tra l’Agenzia delle entrate e la Cassa Forense, è stato regolato il servizio di riscossione, mediante il modello F24, dei contributi previdenziali e assistenziali dovuti dagli iscritti alla citata Cassa.
    Con nota prot. n. 47793 del 24 febbraio 2023, la Cassa Forense ha richiesto l’istituzione di una ulteriore causale contributo, rispetto alle causali già istituite con le risoluzioni n. 1/E dell’11 gennaio 2021, n. 34/E del 21 maggio 2021 e n. 56/E del 6 settembre 2021.

    Ciò premesso, si istituisce la causale contributo di seguito indicata:

    • “E107” denominata “CASSA FORENSE – contributo minimo integrativo”.

    In sede di compilazione del modello F24:

    • la causale in argomento è esposta nella sezione “Altri enti previdenziali e assicurativi” (secondo riquadro),nel campo “causale contributo”, esclusivamente in corrispondenza delle somme indicate nella colonna “importi a debito versati”, 
    • riportando: 
      • nel campo “codice ente”, il codice “0013”;
      • nel campo “codice sede”, nessun valore;
      • nel campo “codice posizione”, nessun valore;
      • nel campo “periodo di riferimento: da mm/aaaa a mm/aaaa”, il mese e l’anno di competenza del contributo da versare, nel formato “MM/AAAA”.
    Allegati:
  • Determinazione del Reddito

    Attacco hacker: il riscatto pagato è relativamente indeducibile

    Ormai da molti anni accade che i server di società e di studi professionali vengano presi in ostaggio e criptati da malware chiamati ransomware, per le cui chiavi di decriptazione viene richiesto, dagli hacker che li hanno creati, un pagamento in bitcoin.

    Purtroppo, molte volte, dato l’interesse a mantenere l’integrità dei dati, il pagamento del riscatto può risultare necessario; e il rischio legato a questo tipo di situazione può considerarsi tutt’altro che recondito, al punto che alcune aziende oggi stanziano in bilancio un fondo rischi specifico.

    È questa la situazione presa in esame dalla Risposta a interpello numero 149 del 24 gennaio 2023.

    La domanda principale, che interessa il diritto tributario, per la situazione in trattazione è se il riscatto pagato possa essere considerato un costo deducibile oppure no.

    A qualcuno il dubbio potrebbe sorgere in conseguenza del fatto che l’articolo 14, comma 4-bis, della Legge 537/1993 prescrive che “non  sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle  prestazioni di servizio direttamente utilizzati  per  il compimento di atti  o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale  il pubblico ministero abbia esercitato  l'azione penale”.

    L’Agenzia delle Entrate chiarisce subito che il comportamento tenuto dagli hacker configura il reato di estorsione previsto dall'articolo 629 del Codice penale”, ma che, come era lecito aspettarsi, il pagamento del riscatto, pur  costituendo un  elemento costitutivo del reato, “in nessun caso può integrare un fatto punibile per la vittima”.

    Con altre parole, per la valutazione della deducibilità del costo rappresentato dal riscatto, “può escludersi […] l'applicazione della disciplina dei costi da reato”.

    Le valutazioni da fare, secondo il punto di vista della prassi, sono di diversa natura e incentrate sul principio di inerenza.

    Semplificando per brevità, il principio di inerenza richiede che i costi d’impresa, ai fini della loro deducibilità, debbano essere funzionali alla produzione di ricavi; tale capacità funzionale può essere puntuale, cioè legata a uno specifico ricavo, oppure generale, interessando l’impresa nella sua complessità, quale struttura idonea a produrre ricavi.

    L’Agenzia delle Entrate puntualizza il fatto che è a carico del contribuente l’onere di dimostrare l’esistenza e l’inerenza di un costo e la sua correlazione con l’attività imprenditoriale; e che, nella situazione in esame, senza ulteriore supporto documentale, non è possibiledimostrare che l'uscita di denaro relativa all'acquisto dei bitcoin e il successivo trasferimento degli stessi sia strettamente correlato alla remunerazione di un fattore della produzione (le prestazioni che gli hacker si sarebbero impegnati ad eseguire)”. 

    Quindi, di per sé, senza ulteriore supporto documentale, il costo non è deducibile

    Fondamentalmente viene rilevato un difetto di inerenza, la mancanza di un collegamento funzionale tra il costo sostenuto e un fattore della produzione o l’attività dell’impresa.

    Il principio di indeducibilità stabilito non è assoluto, ma relativo, in quanto il contribuente potrebbe dimostrare l’inerenza producendo supporto documentale in favore della sua tesi; non è evidente, però, in che maniera e con quale documentazione si possa dimostrare ciò.

    Le conclusioni possono sorprendere, in quanto il pagamento del riscatto, nella situazione esaminata, è un costo sostenuto per il mantenimento dell’integrità dei dati aziendali e del funzionamento dei sistemi informatici, entrambi elementi non secondari per la prosecuzione dell’attività dell’impresa; ma, come spesso accade in relazione all’inerenza, la valutazione può spesso essere influenzata dal punto di osservazione.

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  • Determinazione del Reddito

    Restituzione somme già sottoposte a tassazione: le criticità interpretative

    Nell’ambito dei redditi da lavoro dipendente, in base alla lettera d-bis) del comma 1 dell’articolo 10 del TUIR, nel caso in cui il lavoratore restituisca al soggetto erogante una somma precedentemente indebitamente erogata ed assoggettata a tassazione, tale restituzione rappresenterà un onere deducibile per il lavoratore nell’anno fiscale di restituzione o nei successivi in caso d’incapienza.

    La norma non lo prescrive espressamente, ma il fatto che le somme restituite rappresentino un onere deducibile per il lavoratore, ha portato alla condivisibile determinazione di prassi che le somme dovessero essere restituite al lordo delle ritenute subite.

    Questo meccanismo spesso si scontra nella pratica contro la volontà del percettore di restituire delle somme non effettivamente percepite, le ritenute, e nella giurisprudenza contro un prevalente orientamento che mette in discussione la legittimità della pretesa della restituzione di somme mai entrate effettivamente nella sfera patrimoniale del percettore.

    Con l’articolo 150 del DL 34/2020, il cosiddetto decreto Rilancio, il legislatore è intervenuto sul problema aggiungendo il comma 2-bis all’articolo 10 del TUIR, per effetto del quale le medesime somme di cui alla lettera d-bis del comma 1, quelle precedentemente indebitamente erogate e assoggettate a tassazione, possono essere restituite al netto delle ritenute subite. In questo caso, per il lavoratore gli importi restituiti non rappresenteranno un onere deducibile, mentre al sostituto di imposta spetterà un credito di imposta del 30% delle somme ricevute, forfetariamente calcolato in base alle ritenute operate sul primo scaglione di reddito Irpef del 23%, utilizzabile in compensazione senza limite di importo per le restituzioni effettuate dal 1 gennaio 2020.

    Recentemente Assonime è intervenuta sull’argomento, a cui ha dedicato la circolare 13/2021, sulla quale mette in evidenza alcune criticità del disposto normativo; la principale e più sensibile si basa sulla constatazione che la norma, prevedendo un credito di imposta forfetario del 30%, non permette il recupero integrale, per il sostituto d’imposta, delle ritenute operate in caso di applicazione di un’aliquota superiore al 23%.

    Dato che il meccanismo di calcolo previsto, in un caso del genere, porterebbe ad un ingiustificato arricchimento dell’Erario, secondo Assonime dovrebbe ritenersi sempre possibile, per il sostituto, recuperare le ritenute effettivamente versate, ipotizzando la possibilità, per la parte che eccede la somma recuperabile tramite credito di imposta, di trasmettere una istanza di rimborso all’Agenzia delle Entrate.

    La soluzione proposta, per quanto condivisibile nei limiti delle considerazioni che vi sono alla base, non è però supportata né dal disposto normativo né dall’interpretazione di prassi.

    Per contro, si noterà che il disposto normativo che ha introdotto il comma 2-bis sull’articolo 10 del TUIR non ha però abrogato la lettera d-bis del comma 1 del medesimo articolo, che dispone l’alternativa modalità di restituzione al lordo delle ritenute; motivo per cui, può sembrare lecito ipotizzare che le due modalità di riversamento previste dal legislatore, al lordo e al netto delle ritenute, debbano essere considerate come delle alternative tra le quali il lavoratore e il sostituto d’imposta possano scegliere, con accordo tra le parti, potendo effettuare una valutazione di ordine pratico ma anche di convenienza fiscale.

    Da alcune risposte ad interpello, la prassi sembra orientata ad avvallare questa linea d’interpretazione e anche Assonime, nella medesima circolare prima citata, ammette che potrebbe rappresentare una adeguata soluzione fiscale al problema esposto.